Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo

Ziqqurat n°8
Sommario

Bill Viola, Stations, 1994, video installazioneNON è + tempo di Videoarte

IL PENSIERO DELL'IMMAGINE NEL CONSUMO TECNOLOGICO DELLA TEMPORALITA'
di Antonello Zanda

Che ne è dell’immagine nel tempo della videoarte? E che ne è del tempo nell’immagine della videoarte? Questa ritorsione speculare della domanda non è segno di una vocazione al gioco linguistico, ma è dentro la natura stessa dell’immagine nell’era dell’elettronica e delle nuove tecnologie. Infatti l’immagine nella videoarte viene sottratta al giogo della rappresentazione fantasma ed è sempre più invischiata, se non consumata, nei processi tecnologici che la producono. Precisiamo subito che qui si intende la videoarte nel senso più ampio del termine, come ogni prodotto artistico in cui è presente l’elemento video e che quindi abbia a che fare con la produzione di immagini elettroniche. Il tempo della videoarte, o meglio, la temporalità sradicata testimoniata nella/dalla videoarte, è un corpo mutante, un oggetto non più definibile perché la sua natura è quella di sottrarsi alla definizione, all’insidia della staticità. Il suo tempo (la sua instabilità) è incontenibile, e il suo esondare concettuale è tale che l’unica figura atta ad esprimere la sua riproducibilità moltiplicante è l’immagine frattalica e rizomatica. Il suo principio costitutivo è l’indeterminatezza, una tensione immateriale inflattiva che produce la vitalità informale di un orizzonte infinito, a fronte di una sua elementare discrezione e puntualità, di un’oggettività spesso semplificata e di una impalpabilità che la sottrae ai processi di reificazione commerciale. In questa mappa impossibile dei tesori videoartistici è tuttavia possibile avvertire – con lo slancio analitico e il coraggio del minimalismo concettuale – un rumore di fondo che segnala il fattore creativo conseguente e derivato dalla pervasività della videoarte, diventata il terreno di gioco in cui le distanze tra immaginato, immaginante e immaginabile tendono a consumarsi, raccogliendosi in un buco nero virtuale. Già Deleuze faceva notare come l’immaginario non identifichi l’irreale, ma un regime di indissolubilità e insieme incommensurabilità di reale e irreale, che si fa tempo come scambio tra immagine attuale e immagine virtuale. È così possibile dire che la videoarte trova luce in questo immaginario. Perciò la sua dimensione è fuori della temporalità, là dove il tempo è un altro tempo, un altro modo di essere del tempo. Il carattere irriducibile e instabile del tempo (l’immagine tempo) modifica l’ordine del presente e lo libera dalle consuetudini del pensiero quotidiano. Così il tempo è mutante, in quanto ha perso la configurazione lineare.


L’artista, un artista sui generis sempre più coincidente con la figura media dell’essere umano del XXI secolo, ha polverizzato la processione discreta e lineare del tempo. Il prima e il dopo sono anch’essi determinati dall’immagine e non più nell’immagine. In una parola: il tempo è ricreato e la sua immagine è ricostruita secondo le condizioni oggettive della rappresentazione. Così attualizzato in un farsi presente il tempo è, preso immediatamente, di fatto annichilito. Il prima e il dopo ora sono fuori dell’immagine. In tutt’altro modo operava il cinema narrativo con il montaggio, in cui la linearità temporale (la pellicola come immagine analogica del tempo) era mantenuta intatta e riprodotta dalla/nella struttura narrativa. Si è fatto un bel salto dai tempi del fantascope di Etienne-Gaspard Robertson (era il marzo del 1799), che costruiva spettacoli multimediali proiettando fantasmi su una tela bianca con odori d’incenso che bruciava in sala e rumori acuti e stridenti. L’immagine era dentro il gioco dell’illusione della realtà, modellata sulla temporalità dello spettatore. Ma l’illusione non poteva separarsi dalla dimensione del reale (quella dello spettatore, appunto) perché il tempo della visione era dentro la visione del tempo di tutti. In questo senso il cinema non è mai uscito dal circolo della comunicazione, configurandosi immediatamente come logon koinon, linguaggio comune. La fuga nell’irrazionale narrativo – prendiamo ad esempio il cinema espressionista – alterava il reale e forzava il recinto della comunicazione, ma non metteva in discussione la temporalità. La decostruzione avveniva in ragione di una ricostruzione che alterava le modalità della visione, ma non le cancellava per ridefinirle. In ambito cinematografico furono le avanguardie degli anni Venti ad approfondire la ricerca sulla natura dell’immagine. La macchina ottica del cinema non aveva però un orizzonte esclusivamente autoreferenziale, come si trattasse di una sorta di autoanalisi in cui si sperimentano e si esercitano le capacità innovative del medium. Nel vedere i film di Man Ray e Richter, Duchamp e Buñuel, Clair e Picabia, Léger e Fischinger e persino nella particolare esperienza di Artaud si vive una ricognizione della radicalità del tempo e dello spazio: le immagini sono sganciate dal terreno della successione e dal sistema degli assi cartesiani per essere sviluppate come forme della pura espressione. L’autonomia dell’immagine doveva esser totale. L’idea di Artaud era quella di «un cinema capace di leggere le azioni in termini di visualità e di non ridurre la visualità a un gioco formale di linee, un cinema che assuma tutta la complessità del soggetto e dell’immaginario, e insieme sappia far vivere integralmente sullo schermo questo spessore psichico... C’è in Artaud una consapevolezza assai forte del carattere di rottura e di novità radicale che il cinema può introdurre nel campo del simbolico» (Paolo Bertetto, Il cinema d’avanguardia: 1910-1930, 1983). Tuttavia la costruzione spaziale dell’immagine è ancora sottoposta alla catena temporale cui resta soggetto il simbolico: in questo schema lo spettatore è sì un punto di vista esterno, ma è anche interno quale momento fisico del tempo della visione. L’esperienza ordinaria del tempo è che esso sia composto di istanti, i quali si succedono senza riferirsi all’unità. Il tempo ignora la continuità, eppure nel chiamarsi all’attenzione del concetto ignora anche la discontinuità. La nostra esperienza ne coglie espansioni e contrazioni, densità e dileguatezza. Il tempo ci appare «pieno, vuoto, intenso o piatto, vertiginoso, banale, tagliato molto a lungo da una brusca faglia, pieno uniformemente e continuamente bianco» (Michel Serres, Genesi, 1988). Il lavoro del tempo sui suoi elementi discreti è ben sintetizzato da Serres quando dice che esso «acclimata in sé tutte le negazioni, accoglie al suo interno, positivamente, l’indefinito di tutte le determinazioni». Nel cinema il fotogramma è una porzione di inquadratura che denuncia la sua indefinitezza perché il fotogramma si definisce in un primo tempo in relazione alla sequenza e in un secondo tempo in rapporto al montaggio. Se l’immagine cinematografica si è fatta linguaggio per raccontare e mediare significati, l’immagine nella videoarte si è fatta linguaggio per parlare di sé in quanto linguaggio. Le avanguardie del cinema degli anni Venti avevano certo fatto i primi passi importanti per aprire le porte di una riflessione metalinguistica. Tuttavia nell’ignorare radicalmente e a priori il fattore tempo non lo mettevano in discussione, ma anzi valorizzavano la temporalità della visione dello spettatore che subiva e viveva la frizione di una visione temporale della atemporalità. La frizione non creava consapevolezza in un tempo in cui la narratività dell’immagine esplorava l’estetica del mondo reale ancora lontano dallo scoprire i propri limiti. Bisogna attendere il narcisismo della videoarte per riprendere i nodi della questione, un narcisismo di fondo che è dentro la specularità della domanda iniziale, perché l’immagine della videoarte si guarda e mostra il tempo dell’immagine di sé. Ed è un tempo nuovo, radicale, diverso, altro. Se è vero che l’immagine elettronica con l’avvento del televisore è entrata di forza nelle mura domestiche e ha rivoluzionato l’intera sfera della sensibilità quotidiana, è anche vero che la natura plastica elettronica dell’immagine video consente di sottrarre il linguaggio televisivo alla banalità rappresentativa del senso comune, perché in esso il reale sfuma e fluttua con l’irreale dentro il corpo dell’immaginario, muovendosi tra visibile e invisibile. La videoarte mostra e genera vuoti, tagli, spazi che il tempo non riempie. La tecnologia elettronica ci mette così di fronte alla natura immateriale dell’immagine video, la cui struttura ha trasformato l’orizzonte spazio-temporale cui ancora si riferiva l’immagine cinematografica. L’immaginazione elettronica non ha più bisogno del mondo reale per raccontare un reale che è un altro mondo. Questo aspetto è già dentro la consapevolezza teorica del gruppo Spaziale, che in Italia il 17 maggio 1952 stilò un Manifesto, facendo seguito a una trasmissione televisiva sperimentale di Fontana, una di quelle che hanno preceduto l’inizio ufficiale delle trasmissioni (1954). Si legge nel Manifesto: «È vero che l’arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata, e che, attraverso lo spazio, possa durare un millennio anche nella trasmissione di un minuto. Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all’infinito, in infinite dimensioni, le linee d’orizzonte: esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica». Ma il cinema degli anni Quaranta e Cinquanta aveva già messo in evidenza con i lavori di Maya Deren, Stan Brakhage e Gregory Markopoulos, incursioni significative sulla natura del tempo rinnovate successivamente dalle opere di Andy Warhol, Michael Snow, Jonas Mekas e del movimento Fluxus. Nel 1963 Nam June Paik, uno dei pionieri della videoarte, espone nella galleria Parnass di Wuppertal la sua installazione Exposition of music-electronic television, che incorpora duchampianamente nell’immagine il soggetto dell’immaginante.

Nam Jun Paik, Sfera. Punto elettronico, 1990-92, video installazione

Nam Jun Paik, TV cello, 1992, video installazione

Ma ancora in ambito cinematografico, nel 1964, due artisti italiani, il pittore Gianfranco Baruchello e il cineinventore Alberto Grifi, realizzarono un’opera, Gianfranco Baruchello, Verifica incerta, 1965La verifica incerta,che entra nel corpo vivo del tempo, smontando l’idea di tempo lineare che procede dall’inizio alla fine di un film e segnando una svolta nell’approfondimento del senso del tempo, del ritmo e del movimento, che ha nel Vertov di Un uomo con la macchina da presa il suo più illustre e diretto antecedente. I due comprarono un camion di pellicole destinate al macero, 150 mila metri di pellicola in cinemascope della Hollywood degli anni Cinquanta e Sessanta: «l’idea era di percorrere alla rovescia la genesi di un film: non partire dallo script per arrivare alle immagini, ma usare le immagini – esistenti/di consumo – per costruire una storia intorno a un personaggio unico (Eddie Spaniel), che si diramava in cento direzioni impreviste e simultanee» (Baruchello). Quest’opera, che si muove ancora oggi contro il cinema tradizionale, fu presentata per la prima volta a Parigi, nel maggio del 1965, da Marcel Duchamp, a cui era dedicato, davanti a un pubblico eccezionale tra cui Man Ray, Max Ernst e John Cage. I due autori hanno tagliato e rimontato spezzoni di storie, di situazioni topiche, con porte e finestre che si chiudono ripetutamente, baci che si ripetono e si inseguono, gesti e parole convenzionali che danno il ritmo alla visione. Con quest’opera il cinema, prima dell’avvento dell’elettronica, tocca i limiti delle sue possibilità di mettere in discussione il fattore tempo. La verifica incerta smonta il tempo nella sua linearità discreta e ne moltiplica gli effetti emozionali. Sono infatti le immagini e il ritmo del montaggio che cortocircuitano il senso della narrazione. Il tempo è tempo rubato al movimento e al suo sviluppo lineare e così riciclato, continuamente restituito in circolo. La visione risulta così composta da una molteplicità di shock, rimettendo con ciò in discussione gli stessi principi della conoscenza. In sé l’idea non era nuova, ma nessuno aveva pensato di tradurla. Walter Benjamin in Parco Centrale (Angelus Novus) sostiene che a partire dal XIX secolo le forme di trasmissione di conoscenza metropolitana avvengono preferibilmente attraverso shock. Lo shock sarebbe un fenomeno provocato da elevate energie operanti all’esterno dell’organismo e che irrompono verso l’interno dell’organismo stesso come fosse un buco nero. Per utilizzare una figura sarebbe come dire che la trasmissione di conoscenza avviene tramite un proiettile che ha possibilità di arrivare a destinazione generando un impatto direttamente proporzionale alla propria velocità. Quest’impatto, cioè questo shock, rappresenta una forma di trasmissione del sapere che esautora e mette in crisi la socialità della trasmissione di conoscenza tramite narrazione. Questo shock è la sintesi della crisi della narrazione e della sua colonna portante, il tempo. Capiamo bene allora cosa vuol dire Deleuze quando afferma che il cinema fa la sua rivoluzione kantiana perché cessa di subordinare il tempo al movimento. In forza di ciò l’immagine cinematografica diviene un’immagine-tempo, una autotemporalizzazione dell’immagine. L’immagine-tempo è processo di realizzazione di un linguaggio e di una concezione del tempo, ma non solo: lega, smonta, ricompone attivamente parole e cose, immagine con percezione e linguaggio e innesca una temporalizzazione di questo prodotto nel suo complesso. La videoarte, ma non di meno il cinema oggi attraversato dalla tempesta della creatività delle nuove tecnologie, entra nel vivo del rapporto tra immagine e concetto costruendo un’immagine del pensiero, o meglio dei veri e propri meccanismi di pensiero. Dopo Nam June Paik un lungo corteo di autori ha esplorato e immagazzinato nel buco nero della videoarte opere eterogenee. Si va dalle vere e proprie produzioni videografiche (l’immagine elettronica lavorata dall’artista) alle registrazioni di performance azioni ed eventi, dalle video-sculture ai video-ambienti, dalle videoinstallazioni (combinazione di dispositivi eterogenei) alle videoperformance multimediali (combinazione del linguaggio video con altrStudio Azzurro, Il soffio sull’angelo, primo naufragio del pensiero, 1997, installazione interattivai linguaggi come danza e teatro), fino alla più recente net-art. Steina Vasulka, Violin Power, 1970, performanceL’universo magmatico della videoarte è animato da moltissimi autori come Woody Vasulka, Wolf Vostell, Studio Azzurro, Gianni Toti, Fabrizio Plessi, Bill Viola, Peter Greenaway, Gary Hill, per citare solo alcuni tra i più conosciuti. Con la videoarte l’immagine si fa pensiero mutante. E il pensiero dell’immagine ha ancora molto da pensare.

 


 

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