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           Il jazz fotografato daDaniela Zedda
 di Nanni Campus
 Natura morta con custodia di sax è 
        il titolo di una celebre foto di Herman Leonard, che ritrae i “ferri 
        del mestiere” di Lester Young (fra i quali, appunto, una custodia 
        di sax) e finisce per ritrarre Young stesso, che nella foto non c’è, 
        ma si vede. In seguito, questo è diventato anche il titolo della 
        edizione italiana di un libro celebre di Geoff Dyer, in cui l’autore, 
        partendo appunto da alcune foto, scava nella vita di alcuni di questi 
        stranissimi personaggi che sono i jazzisti. Abitatori della notte, cerebrali 
        ed incomprensibili intellettuali, amanti prima e studiosi poi di ogni 
        forma di espressione “bassa”, popolare, e contemporaneamente 
        raffinatissimi e dotti, spacconi e modesti, rigidi improvvisatori. Sarà 
        per via di tutti questi contrasti che il jazz si sposa così bene 
        al bianco e nero.Ora ci sono due o più modi per fotografare il jazz, ma fondamentalmente 
        due. Posto il rapporto diretto che s’instaura tra il musicista attore 
        ed il fotografo media-attore, una strada è appunto quella 
        della natura morta, il dramma di oggetti: spartiti strappati, 
        il luccichio degli ottoni, sono tutte cose che vanno a nozze con una pellicola 
        bn. Oppure c’è la natura viva, fotografare il gesto, 
        o meglio l’atto, per dirla in termini teatrali.
 Fare un set dicono spesso i jazzisti, riferendosi ad un concerto, 
        ed è spontaneo pensare al set fotografico. L’insieme di immagine 
        e musica pare strutturale al jazz più che ad altre espressioni 
        musicali. Tentando una interpretazione, ciò può derivare 
        dalla sua essenza di musica improvvisata, riproducibile e riprodotta sempre 
        con mezzi tecnici, infinitamente registrata ma intrinsecamente irriproducibile 
        nella sua essenza di unicità. L’immagine fotografica, che 
        gioca con l’illusione di congelare l’istante, tenta di stabilire 
        il ponte, di ricostruire la magia del momento in cui certi
  suoni 
        sono pensati e nascono in un unico gesto. Eminentemente su questo secondo 
        fronte, quello della “natura viva”, si muovono le Sessions 
        di Daniela Zedda, serie fotografica di grande successo che ritrae soprattutto 
        i gesti, l’umanità stramba dei molti jazzisti transitati 
        davanti al suo obiettivo: 70 immagini in un bianco e nero dai forti contrasti, 
        immediatamente ricollegabile alla “tradizione” della fotografia 
        di jazz, grammatica dell’immagine nata per necessità, per 
        vincere la scarsa luce dei club dove il jazz moderno è 
        nato, e diventata oggi scelta poetica. Fotografare il jazz è stata una costante del lavoro della Zedda, 
        fin dai suoi esordi nei primi anni ’80, sempre vicina ai “luoghi 
        degli eventi”, ha documentato i passaggi in Sardegna, le sessions 
        di tutti i grandi e degli altri nomi del jazz, agevolata in questo dal 
        suo lavoro di reporter, stabilmente presso il quotidiano L’Unione 
        Sarda, ma che ha visto pubblicate le sue immagini sulle più importanti 
        testate nazionali, dal Corriere della Sera a Repubblica, da Musica Jazz 
        ai rotocalchi come Epoca o L’Europeo.
 Tuttavia, la forza di queste immagini non risiede tanto nel congelare 
        volti famosi in pellicola, secondo la prassi del lavoro giornalistico, 
        ma raggiunge i più alti livelli invece proprio nell’assenza 
        del volto “famoso”, e nella presenza dell’atto, del 
        dettaglio umano che agisce la musica.
 La ricerca di Daniela Zedda, che questa raccolta d’immagini rende 
        evidente, è attraverso questa via quella della foto cosmica, emersa 
        dal momento ma capace di travalicare i limiti spazio-temporali. L’immagine 
        cosmica è scattata a Cagliari, ma non c’è un motivo 
        per cui questa Cagliari non sia New York, ed è un’immagine 
        buona per l’eternità. Ma soprattutto, è un’immagine 
        di Charlie Mingus, ad esempio, in cui il volto non c’è, mangiato 
        dal nero di un
  taglio di luce. Oppure, è la curvatura della schiena del trombonista, 
        prima o dopo il suo set, che rivaleggia con la statuaria greca, imponente 
        e dimesso, perfettamente umano. Certo, ci sono i volti, c’è 
        la smorfia espressionista di Michel Petrucciani, lo sguardo sconvenientemente 
        sensuale di Dee Dee Bridgewater, ma è nei dettagli minimi che la 
        cosa diventa ancora più eclatante. Mani che frugano, frusciano 
        fra gli spartiti, o danzano sulla tastiera al ritmo del jazz, l’unica 
        musica che non si suona, ma accade. 
 
 
 (foto tratte da Jazz in Sardegna, Fiera Campionaria, 
        Cagliari) 
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