Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°7
Sommario

 

Arte tra le note
Marco Senaldi


Storie d’infiniti
Giannella Demuro


Operambigua
Anna Rita Chiocca


Taghelmoust. Umberto Mariani
Mimmo di Marzio


La gaia assenza
Anna Rita Chiocca

Consonante
Angela Rorro


Semida
Anna Rita Chiocca

Quadri di un'esposizione
Nel segno dell’arte Maggie Cardelùs, Sarah, 2000, foto ritagliata, 150 x 100 cm, (courtesy Galleria Kaufmann, Milano)



di Giannella Demuro
e Antonello Fresu

Con Quadri di un’esposizione, la quindicesima edizione del festival internazionale di musica (e altro) Time in Jazz, si è voluto dichiarare esplicitamente lo stretto legame che a Berchidda (un piccolo paesino in provincia di Sassari) unisce musica e arte visiva, un legame da sempre ricercato e che si è andato sempre più rafforzando negli anni recenti con la creazione del PAV, il Progetto Arti Visive di Time in Jazz nato nel 1997 non solo per curare le iniziative artistiche inserite nell’ambito del festival, ma anche per documentare e promuovere la ricerca visiva in Sardegna, e offrire un’occasione di incontro e riferimento per la cultura artistica nell’Isola.
Nell’edizione di quest’anno, tenutasi come di consueto nella settimana di ferragosto, numerose sono state le mostre e le iniziative proposte al pubblico, accanto ai due progetti stabili del PAV: la Collezione di Arte contemporanea, costituita grazie alla disponibilità e alla sensibilità degli artisti che negli anni hanno partecipato alle mostre e alle rassegne del Festival, che è una preziosa testimonianza degli esiti della sperimentazione artistica in Sardegna, ma comprende anche opere di artisti nazionali e internazionali e Semida, il “museo” di arte-natura-ambiente inaugurato lo scorso anno sul Monte Limbara.
Tutto questo portato avanti con lo spirito che fin dagli inizi ha animato e sostenuto il percorso del PAV: la consapevolezza dell’appartenenza ad una realtà periferica vissuta non come limite ma come stimolo all’apertura verso altre realtà, altri centri, altre periferie, verso altri e nuovi interlocutori.

Alex Pinna, Alias, 2000, corda annodata, acciaio (courtesy Galleria Ciocca, Milano)
Arte tra le note

di Marco Senaldi

La storia degli incroci e delle schermaglie che hanno avuto luogo, nella contemporaneità, fra arti visive e arti musicali, sarebbe troppo lunga anche solo per essere riassunta.
Ma la cosa più interessante non è tanto il modo con cui questi dialoghi hanno avuto luogo - da parte di artisti anche famosi, come Mike Kelley che ha firmato alcune copertine per gruppi rock, ad artisti che agiscono sui due fronti, come artisti visivi e come musicisti - ma il significato profondo che hanno avuto nel rimettere in discussione l’identità stessa del fare arte oggi.
Sorprendentemente, lo stesso Duchamp non amava essere preso per un anti-artista, ma sosteneva di essere un non-artista. Infatti, l’anti-artista è come l’ateo, che nega dio, perché sotto sotto, anche se a rovescio, ci crede ancora, mentre il non-artista non crede e basta - cioè non crede nell’Arte con l’A maiuscola, dubita insomma dell’identità di una sola arte. Ma forse, nella stessa linea di quel maestro, con cui peraltro amava giocare a scacchi, una simile rivoluzione è stata dovuta anche ad un altro “musicista”, se con questo termine vogliamo etichettare l’attività multiforme di un personaggio come John Cage. Con i suoi Imaginary Landscapes, Cage non ha forse dato vita ad una musica music-free, nel senso di libera dall’identità soffocante di se stessa?
Non è stato da lui che Allan Kaprow ha appreso il segreto del rovesciamento dell’identità dell’arte nel nuovo concetto di un-art, an-arte, arte denominata da una privazione preliminare, privata e spossessata del suo più ambito segreto, se stessa?
Non deve quindi destare meraviglia se alcuni artisti possono fungere da contraltare a dei musicisti. Il punto non è tanto la ricerca di una interazione ad ogni costo. Il punto è che per fortuna, sia in musica come nell’arte visiva si è affermata una tendenza (tipicamente duchampiana e cageana) verso l’irresolutezza, verso il definitivamente non-finito, verso l’abbandono progressivo di un orizzonte di senso totalizzante e pervasivo, favorendo così non tanto la possibilità di un’opera d’arte “totale”, ma di un’opera d’arte un-total, completa ma illimitata al tempo stesso.

Scenografie di Thorsten Kirchhoff, Alessandro Bazan, Maggie Cardelùs, per Time in Jazz 2002, Berchidda (SS) Scenografie di Thorsten Kirchhoff, Alessandro Bazan, Maggie Cardelùs, per Time in Jazz 2002, Berchidda (SS) Scenografie di Thorsten Kirchhoff, Alessandro Bazan, Maggie Cardelùs, per Time in Jazz 2002, Berchidda (SS)


Non è tanto il vecchio tema dell’opera aperta alle varie interpretazioni, quanto quello di un’apertura più radicale del fare artistico che deve essere posto in relazione con il “fuori”, con l’esterno e l’estraneo per vivere, agire e interagire. Perché nel frattempo ad essersi aperte sono anche le altre forme espressive, ed il risultato è un’arte relazionale nel senso che si pone in relazione con tutte le sue manifestazioni ad li là delle specifiche identità. In questa chiave va interpretato il coinvolgimento degli artisti sul palco di questa edizione di Time in Jazz, Quadri di un’esposizione, non per definire una poetica comune ma nell’idea di una collaborazione libera e veramente “jazzistica”, sia in chiave di “atmosfera” visiva, che come “improvvisazione nell’improvvisazione”.
Così, se Mariani - come nella world music - ha scelto la strada dell’approccio etnico e se Maria Lai propone un approfondimento dello specifico mondo ancestrale che si lega alle tradizioni della Sardegna - terra che, fin dalla lingua, risuona di poeticità -, diverso è il caso degli altri artisti invitati. Enzo Cucchi resta pur sempre un Jon Hassell dell’immagine con la capacità di fondere in un idioma inconfondibile sogni, ricordi e proverbi visivi in un amore incancellabile per il segno. Artisti di una generazione più recente, invece, come Thorsten Kirchhoff e Maggie Cardelùs, hanno attraversato nel loro stesso itinerario l’avventura musicale, in modo metaforico per la Cardelùs, impegnata da tempo nel ritrovare una dimensione non-fotografica all’immagine fotografica, e in modo più diretto per Kirchhoff che, negli anni ’80, ha anche partecipato nel ruolo di guitar & voice alle esibizioni del gruppo new wave Ivor Axeglovitch, ha inciso un cd, e nei cui lavori il rimando all’universo musicale è costante.
Lo stesso potrebbe dirsi per l’amore verso il jazz che attraversa da cima a fondo la pittura di Alessandro Bazan, un vero e proprio session-man del pennello, e infine di Alex Pinna, che per l’occasione del festival ha tentato un esperimento davvero inedito, ossia mostrare il divenire del segno-disegno in diretta, quasi accompagnato dal ritmo della musica di Uri Caine.
E dunque, in conclusione, non sarebbe sufficiente, per apprezzare a fondo l’idea innovativa che sta alla base di questo inedito accostamento tra artisti e musicisti, ricordare le sequenze travolgenti di Life Lesson (Scorsese, 1989) in cui l’occhio cinematografico restituisce la sconvolgente sincronicità di suono e segno, quasi come il simbolo di nuovi possibili orizzonti di creazione?


Aldo Contini, M. 20, 1996, oro fino, orone, similargento su legno, 106,5 x 82 x 6 cm (foto Stefano Grassi)
Storie d’infiniti. Aldo Contini / Maria Lai

di Giannella Demuro

Il Museo del Vino ha ospitato Storie d’infiniti, la doppia personale di Aldo Contini e Maria Lai, accostando due percorsi intrapresi verso la metà del secolo scorso, i cui esiti, per quanto distanti tra loro, testimoniano l’altissimo valore degli impianti teorici ed estetici costruiti dai due artisti nei lunghi anni dedicati alla ricerca e alla sperimentazione.
Dopo gli anni della formazione e le prime prove figurative, a partire dagli anni Sessanta la poetica di Maria Lai si orienta in maniera sempre più netta verso i temi dell’identità e del recupero della tradizione isolana e, attraverso questa, verso i grandi temi universali della fiaba e del mito. Negli anni più recenti, l’elemento narrativo ritorna sempre più insistente nel lavoro della Lai, fino a costituirne la struttura portante.
Per Aldo Contini l’opera d’arte è essenzialmente “opera aperta”: è l’esito finale di un processo creativo che non può, però, essere considerato come un punto di arrivo. È un vero e proprio “atto” comunicativo inesauribile, che si carica continuamente di significati nuovi e inaspettati. Si spiegano così le ragioni di un percorso non lineare, seppure coerente, sempre orientato ad indagare i principi del fare artistico, le sue ambiguità, le sue incertezze.
Di queste due esperienze di arte e di vita, di queste due poetiche, la mostra offre alcuni piccoli frammenti: dagli esiti originali e maturi delle Geografie e delle Fiabe cucite di Maria Lai al Magnificat di Aldo Contini, fino alle opere più recenti della loro indagine: Olio di parole e Retablo pagano.
Intense e di forte impatto, le Geografie: grandi mappe misteriose che raccontano di terre e di mari, di universi lontani le cui coordinate si perdono nel groviglio di fili cuciti su morbidi velluti. E fili anche per i Libri di stoffa: fili che diventano scritture, parole, fiabe, storie che hanno il fascino di magie e tempi lontani. Storie che si arrampicano sui fili pazientemente cuciti dall’artista-cantastorie, che parlano il linguaggio del sogno e della magia.
Nel 2000 Maria Lai realizza una grande e complessa installazione, Olio di parole, con la quale partecipa alla Quadriennale di Roma - una meditazione sull’arte e sulla creazione artistica attraverso la metafora della coltivazione dell’ulivo. L’opera è una spirale di legno - su cui si alternano pietre, terrecotte, fili, ottone, materiali spesso utilizzati nei suoi lavori - che conduce ad un nero cielo stellato, allo spazio assoluto: un percorso dolente nei recessi dell’anima, il percorso spirituale dell’artista. A Berchidda, Olio di parole è stata evocata da una serie di studi realizzati con legno, ceramica, ottone che vibrano di atmosfere rarefatte.
Per quanto la riflessione introspettiva e autocritica sia sempre stata il fulcro nodale della poetica di Aldo Contini, è soprattutto negli anni Novanta, che l’artista raggiunge gli esiti più alti e coinvolgenti della sua ricerca. L’esuberanza aurea della Sala delle Maestà degli Uffizi a Firenze e dei Retabli catalani delle chiese sarde, costituisce il punto di partenza dello splendido ciclo di Magnificat: dalle trame del tempo Contini recupera la preziosità del nobile metallo in opere lignee sagomate a formare delle croci, vestite dai bagliori caldi e metallici dell’oro e dell’argento, opere in cui il metallo prezioso cessa di essere puro riferimento ad una sacralità religiosa. L’artista gioca infatti con la caducità dei materiali: all’oro “vero”, inalterabile nel tempo, oppone quello “falso” facilmente ossidabile e l’oro, affascinante custode del tempo, è chiamato a rappresentare una sacralità laica, la tensione dissonante ma potente della coscienza che scruta se stessa, capace, come l’oro, di resistere al tempo.
Magnificat ha trovato una nuova e originale prosecuzione nel recentissimo Retablo pagano, opera in cui Contini, combinando diversamente gli stessi elementi, propone un nuovo concetto di spiritualità, più concreta e umanizzata dall’intervento di un rinnovato/ritrovato “homo faber”.

 

Gavino Ganau, Toxicity, 2002, acrilico su tela, 30 x 60 cm
Operambigua

di Anna Rita Chiocca

Nell’arte contemporanea, sempre più spesso, la forma mistifica se stessa (rimanendo in realtà sempre uguale) spostando il centro dell’attenzione sui temi e sugli scarti tematici, per cui non sono più gli elementi formali ad innovarsi, sempre più aderenti nella struttura ai linguaggi mediali, quanto piuttosto i contenuti, poiché la forma si dissolve nell’illusione. La mostra Operambigua, curata da Mariolina Cosseddu, ripropone la medesima questione sull’arte emersa nell’ultimo decennio, a partire dal moltiplicarsi di pratiche e tecniche di alta tecnologia o da un ritorno a metodologie accademicamente tradizionali, su temi e concetti di banale quotidianità.
Un’artista come Giulia Sale, raffinata e parca nel mostrarsi, innalza a soggetto artistico la mediocrità dell’esistenza, tutti quegli atti inconsistenti e ripetitivi, privi di valore reale ma fondamentali per il buon funzionamento dei rapporti sociali.
Sguardo impersonale è anche quello di Gavino Ganau che, però, sceglie la tradizionale pratica pittorica trasferendo su tela immagini di poster, modelle da rivista patinata, scene di inutilità assoluta incastrando immagini altrui attraverso un meticoloso campionamento di frammenti.
Anche nell’opera di Leonardo Boscani il conosciuto nasconde in sé l’indicibile: dietro un ritratto di famiglia, l’immagine di una struttura che è stata una fabbrica o l’immagine rassicurante di Babbo Natale, emerge il doppio volto del “non detto”. Altri artisti creano sofisticati sistemi immaginari che coniugano elementi di realtà e di fantasia.
In Operambigua la regina dell’ambiguità dell’essere è sicuramente Greta Frau. Inafferrabile nella forma e nella sostanza, autrice di sé stessa e delle innumerevoli variazioni sul tema del soggetto. Come un vampiro gotico possiamo intravedere le tracce della sua esistenza seguendo quelle delle sue vittime/adepte; qualcosa in bilico tra delirante realtà ed illusione rassicurante.
Pietrolio costruisce con Nolimetangere una macchina barocca e ridondante, lo spettacolo di un baraccone circense in cui il dolore, l’umiliazione, sono l’oggetto dello scherno. L’accanirsi sul senso di colpa della vittima, per un torto subito e l’ambigua visione di sé fuori dal corpo, si concretizzano nel gesto della Fata Turchina che stacca i biglietti dello spettacolo, uccidendo ogni volta un’innocenza messa in piazza, esibita e ridotta a merce di scambio.
Trappola visiva pienamente ingannevole è quella di Salis&Vitangeli. Un mondo scientificamente riconoscibile come reale, ma assolutamente imprigionato nel troppo nuovo, troppo lontano dall’esperienza comune eppure così simile all’esperienza quotidiana.
L’assurda aderenza al grottesco della non accettazione delle regole della vita: nascere, vivere e morire si manifesta nella tela di Danilo Sini Studio i mostri, mostri non della genetica, ma di una alienante non adattabilità alla realtà biologica.
Pastorello, mantenendo il suo consueto rigore formale, crea una serie di tele-interruzioni, interruzioni della comunicazione, in quello che, banalmente, potrebbe sembrare l’immagine, meticolosamente rappresentata, di uno schermo televisivo oppure, ambiguamente, una tela astratto-concretista. Qual è la verità? È il super eroe mascherato, il disturbatore di un equilibrio estetico fatto di regole precise: campiture cromatiche decise, sintassi geometrico-costruttiva cartesiana, oppure un mondo altro che entra a spezzare la continuità della banalità imperante?
La negazione e l’ambiguità percettiva sono al centro dell’opera di Gianni Nieddu Sans Papier. L’anonimato coatto e l’eccesso di evidenza sono lo scotto da pagare per chi vive sulla linea di confine. Una serie di cartellini con impronte digitali costruiscono come tanti tasselli di un mosaico un volto, una presenza. Utilizzando, come fa da tempo, lo slittamento di funzione di piccoli oggetti di cartoleria, Nieddu sottolinea la drammatica sottrazione alla dignità dell’esistenza di numerose identità negate.

Umberto Mariani, Taghelmoust - Il Giorno, 2002, installazione (particolare), 195 x 335 x 59 cm (courtesy PAV)
Taghelmoust. Umberto Mariani

di Mimmo di Marzio

«L’uno è nel tutto e il tutto è in uno». Questo è il motto in cui è racchiusa la dottrina ermetica che vedeva una diretta trasversalità tra metafisica e fisica, la seconda come riflesso della prima. I padri della dottrina ermetica rappresentavano la materia informe con una circonferenza, materia fecondata dal sole, rappresentato anch’esso da una circonferenza. Il grafema che ne derivava è anche il simbolo alchemico del Sale con cui gli ermetisti rappresentavano la personalità essenziale dell’uomo. Il Sale, “elemento fisso” che nel simbolismo ermetico entra in contatto con le influenze esterne rappresentate dal mercurio; il fango e lo sterco, antinomici alla purezza e alla perfezione divina e simbolo di isolamento-separazione-distanza e dunque morte metaforica; la luce ovvero il Fuoco realizzatore esistente nel nucleo essenziale di ogni essere e significato di volontà, ovvero slancio verso l’ideale; il Blu, colore di introspezione e autoanalisi. Raramente come in Taghelmoust il progetto di un’opera racchiude in modo così essenziale e coinciso i caratteri primitivi e simbolici del viaggio inteso come esperienza rivelatrice. Esperienza fortemente autobiografica, quella espressa dal lavoro di Umberto Mariani che, in queste opere, lascia prevalere un’oggettualità primitiva che riduce l’iconografia a codici elementari senza per questo rinunciare all’elemento narrativo. A questo proposito non appare casuale l’identificazione delle popolazioni touaregh quale soggetto di un racconto iniziatico i cui significati si ricollegano alle categorie guida della vita e ai processi primari di nascita, crescita e consapevolezza. I touaregh sono soliti dire che il deserto non lo si vive, ma “lo si attraversa”. Il Ténéré, in lingua touaregh è però anche “ciò che non esiste” ovvero “ciò che non esiste ancora”. Nell’opera di Mariani sono presenti uno a uno tutti i simboli del percorso trasformatore, quello che lo ha condotto a percorrere duemilacinquecento chilometri nel deserto del Ténéré alla ricerca delle antiche saline di Bilma e delle città morte di Djamà e Djadò. L’attraversamento fisico diviene attraversamento mentale nell’opera Taghelmoust.
Il Taghelmoust è rappresentato da una lunghissima striscia di stoffa color indaco. Nel lavoro di Mariani il velo rappresenta l’elemento oggettuale che congiunge simbolicamente e formalmente il tema del viaggio alla poetica soggettiva di un artista per cui il drappeggio rappresenta l’icona ideale dell’arte occidentale. Il drappeggio diviene contenuto e contenitore dell’opera nei differenti dialoghi con le forme architettoniche sia quando funge da basamento o corona alle sculture, sia quando si fa carico di una funzione apparentemente decorativa e quasi liturgica. Ecco allora che le quattro forme assumono sequenzialmente il valore ora di figura di sfondo, perdendo i loro originari caratteri identitari per assumere il ruolo di ancestrali archetipi. La rappresentazione emblematica ed evocativa esprime ancora una volta, e con un’aura pop derivante dal gigantismo delle forme, la poetica di un artista la cui ricerca è tradizionalmente incentrata sul confine ambiguo tra realtà e apparenza, identità e illusione.
In Taghelmoust l’elemento autobiografico si fonde col messaggio archetipico delle forme e della materia che compongono edifici immaginari: come il sale, estratto dal deserto e faticosamente trasportato dalle carovane dei dromedari come un bene prezioso quanto la vita stessa; come il fango e lo sterco che contrappongono all’ideale di purezza cristiano una sacralità misterica legata al processo stesso di creazione, crescita e riproduzione.

 Stefan Bombaci, o.T., 2001, sedie, 276 x 42 x 50 cm (courtesy PAV)
La gaia assenza

di Anna Rita Chiocca

La gaia assenza, a cura di Leone Laria, colloca al centro della riflessione del fare artistico il problema comunicativo: artista-opera-fruitore. Questo progetto è la logica conseguenza di un attraversamento che Laria affronta percorrendo le periferie, i luoghi ai margini di un centro che di queste si nutre. Il centro è tale perché è circondato da altro, da energie che ad esso guardano e in esso confluiscono. Il titolo rimanda per assonanza giocosa all’opera La gaia scienza di Nietzsche, evidenziando, in questo modo, l’aspetto non sense dell’operazione concettuale. Un’operazione il cui senso non è assente ma è capovolto; altre sono le assenze: assenza di schema, assenza di messaggio, assenza di un significato opposto a presenza di scambio, condivisione, relazione. Le opere esposte a Berchidda per la XV edizione del Time in Jazz prevedono la presenza e la partecipazione del pubblico, le relazioni sociali che all’interno degli spazi espositivi si vengono a creare.
Nelle opere di Stefan Bombaci e di Industrie invisibili (Stefano Cossu) distinguiamo il concetto di un’assenza unita all’aspetto gioioso della creazione. Una creazione che permette di contenere al suo interno la comunione tra l’artista e l’opera, fra l’opera e lo spettatore. Nel progetto d’arredamento delle Industrie invisibili questo tipo di relazione si esplicita attraverso il rito collettivo del caffè e della tisana, offerta ai visitatori in precise ore della giornata, da condividere all’interno dello spazio progettato per questa attività.
La nuova filosofia della storia non esclude i rapporti di causa, ma ci priva del conforto che risiede nel pensare che tutto abbia una ragione e un fine. Se ci lasciamo ossessionare dalla mancanza di senso corriamo il pericolo di vivere in un presente dominato dal disorientamento e da riflessioni chiuse e rimuginate. Se ci adattiamo a questa logica illogica, invece, possiamo considerare la nostra intera esistenza come campionatura di oggetti, in quanto le idee proliferano e viaggiano attraverso gli oggetti d’uso.
I concetti di condivisione, comunione e relazione, sono centro tematico anche nelle opere di Markus Keibel e Sonia Rosa Natante. Per Keibel la condivisione è quella della idee, tema e ed espressione formale emersa dai percorsi grafici disseminati tra le vie del paese, frammenti dell’opera Your Freedom is my Freedom, my Freedom is your Freedom, mentre per Sonia Natante lo scambio è quello che si crea tra gli elementi bio-chimici inseriti all’interno di un ambiente primitivo come quello acqueo.

Paolo Soriani, J. Hassell 13 agosto 2001, 2001, stampa lambda, 75 x 75 cm
Consonante

di Angela Rorro

La poesia e la musica possono ridestare a nuova vita gli esseri sensibili. Questo è uno dei significati attribuiti al mito di Orfeo. E Il sogno di Orfeo era il tema del Festival di Berchidda dello scorso anno del quale Paolo Soriani ha voluto dare, attraverso una estesa ricerca fotografica, una personale interpretazione.
Quest’anno, nell’ambito di Quadri di un’esposizione è stata presentata una parte di quelle immagini, una scelta attenta e significativa fatta non per descrivere ma per suggerire impressioni, sensazioni, consonanze. È il festival fatto di poesia, ritmi, luci oltre che di musica ad ispirare le fotografie e contemporaneamente a permearle di quei ritmi, luci, suoni…
Come un bambino che entri fra le mura del Paese - Alice nello specchio - anche allo spettatore viene offerta la possibilità di fare un percorso. Un percorso conoscitivo che conduce a visitare paesaggi e stralci urbani che si frantumano nell’immagine finale. Come se la realtà non fosse che il risultato della frantumazione dello specchio stesso, dell’unità delle arti che si realizza solo nello spazio interiore. Quello che viene fuori è un’interazione di sensazioni, tutte importanti e anzi necessarie alla costruzione delle immagini e dell’itinerario.
E, se noi, come Alice, ci fermiamo davanti a ciascuno dei sette paesaggi, ci accorgiamo che si riferiscono idealmente ai concerti dei musicisti del festival e che il paesaggio-puzzle finale è un fuori campo indispensabile a chiudere la battuta musicale: il tempo dei 7/8. L’ottavo elemento diventa l’unità di misura che dà senso al ritmo dispari di ogni singola foto-ottavo. Lo scambio tra immagini e suoni si fa serrato, si ha quasi l’impressione che la sensibilità della pellicola si sia estesa fino a comprendere le onde sonore e il loro risuonare nello spazio.
I “quadri” di questa esposizione vanno dunque oltre la documentazione dei concerti e degli altri eventi poiché sono e vogliono essere la risonanza di tutti i suoni, dell’orecchio e dell’anima. È la trasposizione musicale dell’esperienza della visione, dello spazio, in un nuovo spazio che risiede nella sfera interiore dell’autore ma anche di tutti coloro che sanno, che vogliono addentrarsi nella sfera dell’emozione. Consonante con tutto questo, il percorso di Paolo Soriani ci rimanda a nuove e possibili consonanze. Quelle che ciascuno può ritrovare in queste immagini e, attraverso queste, nella poesia e nella musica presente e ridestata della nostra parte più intima.

Semida

di Anna Rita Chiocca

La Land Art, o Earth Art, è un’esperienza nata negli Stati Uniti negli anni ’70, che consiste nell’intervenire sulla natura come presa di coscienza dell’ingerenza dell’uomo su elementi dotati di un ordine preesistente. L’operazione non consiste tanto nell’installare sculture all’aperto, quanto nell’utilizzare lo spazio e la natura come elementi dell’opera. Questa necessità di dialogo arte-natura è oggi sentita in termini meno invasivi, il problema della forzatura, della violenza condotta verso l’ordine naturale, diviene centro del discorso.
Semida è un progetto che nasce in collaborazione con l’Ente Foreste Demaniali della Sardegna e consiste nella realizzazione di opere d’arte inserite nei percorsi naturalistici e didattici della foresta demaniale “Monte Limbara Sud”, nel rispetto degli equilibri naturali.
Dopo le opere presentate nella scorsa edizione da Bruno Petretto e Pinuccio Sciola, quest’anno, nei sentieri del museo all’aperto, Monica Solinas sottopone al nostro interesse una porzione di natura incorniciata.
La finestra, dall’inizio della storia delle rappresentazioni visive, è sempre stata il simbolo di una scissione tra il dentro e il fuori: del doppio sguardo, il nostro, che guarda il mondo, e quello delle cose che ci guardano. Nell’opera realizzata sul Limbara da Solinas una finestra, con un sottile schermo in plexiglas, si pone tra noi e il monte, tra noi e la natura. L’opera definisce un dialogo empatico con la severa maestosità del luogo, quasi inaccessibile, fatto di intricati sentieri, semidas, appunto.
Ma se la natura esiste a prescindere dallo sguardo umano, cosa aggiunge quest’ultimo alla sua bellezza, chi trae vantaggio da quest’unione?
Il lavoro di Paola Dessy si occupa appunto di questo rapporto vita/arte, natura/paesaggio, dove l’artificiale e il naturale s’incontrano. Paola Dessy stampa in plotter su fogli di acetato 90 x 200 una foresta di alberi, gli alberi del Limbara, realizzati con colori ad acqua, facilmente cancellabili dalle mani distruttrici dei visitatori. Una foresta pronta a svanire, immateriale, quasi un’illusione sempre in pericolo, nell’emergenza del caos, nell’incertezza di un’esistenza garantita dalla vigilanza e dalla cura di pochi.
Una natura questuante, alberi mendicanti, dotati di mani protese, si materializzano nell’azione di Erik Chevalier. Una natura violata, forse anche dall’arte, che porta su di sé il peso di umanizzazioni sempre più violente, di sguardi sempre meno attenti.
Il rapporto uomo-natura è un rapporto squilibrato a favore di quest’ultima. Così, Giovanna Secchi interviene in punta di piedi, sussurrando. Semplicità dei materiali, gesti minimi. L’artista inserisce, tra le asperità del bosco, una scaletta musicale realizzata con materiali poveri e al tempo stesso preziosi: cotone per tappeti e filo d’oro per ricami. L’arte non sempre è ostile all’ordine delle cose naturali, e il passo leggero dell’artista è come il sorriso di Pan.

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