|
Quadri
di un'esposizione
Nel segno dell’arte
di Giannella Demuro
e Antonello Fresu
Con Quadri di un’esposizione,
la quindicesima edizione del festival internazionale di musica (e altro)
Time in Jazz, si è voluto dichiarare esplicitamente lo
stretto legame che a Berchidda (un piccolo paesino in provincia di Sassari)
unisce musica e arte visiva, un legame da sempre ricercato e che si è
andato sempre più rafforzando negli anni recenti con la creazione
del PAV, il Progetto Arti Visive di Time in Jazz
nato nel 1997 non solo per curare le iniziative artistiche inserite nell’ambito
del festival, ma anche per documentare e promuovere la ricerca visiva
in Sardegna, e offrire un’occasione di incontro e riferimento per
la cultura artistica nell’Isola.
Nell’edizione di quest’anno, tenutasi come di consueto nella
settimana di ferragosto, numerose sono state le mostre e le iniziative
proposte al pubblico, accanto ai due progetti stabili del PAV: la
Collezione di Arte contemporanea, costituita grazie alla disponibilità
e alla sensibilità degli artisti che negli anni hanno partecipato
alle mostre e alle rassegne del Festival, che è una preziosa testimonianza
degli esiti della sperimentazione artistica in Sardegna, ma comprende
anche opere di artisti nazionali e internazionali e Semida, il
“museo” di arte-natura-ambiente inaugurato lo scorso anno
sul Monte Limbara.
Tutto questo portato avanti con lo spirito che fin dagli inizi ha animato
e sostenuto il percorso del PAV: la consapevolezza dell’appartenenza
ad una realtà periferica vissuta non come limite ma come stimolo
all’apertura verso altre realtà, altri centri, altre periferie,
verso altri e nuovi interlocutori.
La storia degli incroci e delle schermaglie
che hanno avuto luogo, nella contemporaneità, fra arti visive
e arti musicali, sarebbe troppo lunga anche solo per essere riassunta.
Ma la cosa più interessante non è tanto il modo con
cui questi dialoghi hanno avuto luogo - da parte di artisti anche
famosi, come Mike Kelley che ha firmato alcune copertine per gruppi
rock, ad artisti che agiscono sui due fronti, come artisti visivi
e come musicisti - ma il significato profondo che hanno avuto nel
rimettere in discussione l’identità stessa del fare
arte oggi.
Sorprendentemente, lo stesso Duchamp non amava essere preso per
un anti-artista, ma sosteneva di essere un non-artista. Infatti,
l’anti-artista è come l’ateo, che nega dio, perché
sotto sotto, anche se a rovescio, ci crede ancora, mentre il non-artista
non crede e basta - cioè non crede nell’Arte con l’A
maiuscola, dubita insomma dell’identità di una
sola arte. Ma forse, nella stessa linea di quel maestro, con
cui peraltro amava giocare a scacchi, una simile rivoluzione è
stata dovuta anche ad un altro “musicista”, se con questo
termine vogliamo etichettare l’attività multiforme
di un personaggio come John Cage. Con i suoi Imaginary Landscapes,
Cage non ha forse dato vita ad una musica music-free, nel senso
di libera dall’identità soffocante di se stessa?
Non è stato da lui che Allan Kaprow ha appreso il segreto
del rovesciamento dell’identità dell’arte nel
nuovo concetto di un-art, an-arte, arte denominata da una privazione
preliminare, privata e spossessata del suo più ambito segreto,
se stessa?
Non deve quindi destare meraviglia se alcuni artisti possono fungere
da contraltare a dei musicisti. Il punto non è tanto la ricerca
di una interazione ad ogni costo. Il punto è che per fortuna,
sia in musica come nell’arte visiva si è affermata
una tendenza (tipicamente duchampiana e cageana) verso l’irresolutezza,
verso il definitivamente non-finito, verso l’abbandono progressivo
di un orizzonte di senso totalizzante e pervasivo, favorendo così
non tanto la possibilità di un’opera d’arte “totale”,
ma di un’opera d’arte un-total, completa ma
illimitata al tempo stesso.
Non è tanto il vecchio tema dell’opera aperta alle
varie interpretazioni, quanto quello di un’apertura più
radicale del fare artistico che deve essere posto in relazione con
il “fuori”, con l’esterno e l’estraneo per
vivere, agire e interagire. Perché nel frattempo ad essersi
aperte sono anche le altre forme espressive, ed il risultato è
un’arte relazionale nel senso che si pone in relazione con
tutte le sue manifestazioni ad li là delle specifiche identità.
In questa chiave va interpretato il coinvolgimento degli artisti
sul palco di questa edizione di Time in Jazz, Quadri
di un’esposizione, non per definire una poetica comune
ma nell’idea di una collaborazione libera e veramente “jazzistica”,
sia in chiave di “atmosfera” visiva, che come “improvvisazione
nell’improvvisazione”.
Così, se Mariani - come nella world music - ha scelto
la strada dell’approccio etnico e se Maria Lai propone un
approfondimento dello specifico mondo ancestrale che si lega alle
tradizioni della Sardegna - terra che, fin dalla lingua, risuona
di poeticità -, diverso è il caso degli altri artisti
invitati. Enzo Cucchi resta pur sempre un Jon Hassell dell’immagine
con la capacità di fondere in un idioma inconfondibile sogni,
ricordi e proverbi visivi in un amore incancellabile per il segno.
Artisti di una generazione più recente, invece, come Thorsten
Kirchhoff e Maggie Cardelùs, hanno attraversato nel loro
stesso itinerario l’avventura musicale, in modo metaforico
per la Cardelùs, impegnata da tempo nel ritrovare una dimensione
non-fotografica all’immagine fotografica, e in modo più
diretto per Kirchhoff che, negli anni ’80, ha anche partecipato
nel ruolo di guitar & voice alle esibizioni del gruppo new wave
Ivor Axeglovitch, ha inciso un cd, e nei cui lavori il
rimando all’universo musicale è costante.
Lo stesso potrebbe dirsi per l’amore verso il jazz che attraversa
da cima a fondo la pittura di Alessandro Bazan, un vero e proprio
session-man del pennello, e infine di Alex Pinna, che per
l’occasione del festival ha tentato un esperimento davvero
inedito, ossia mostrare il divenire del segno-disegno in diretta,
quasi accompagnato dal ritmo della musica di Uri Caine.
E dunque, in conclusione, non sarebbe sufficiente, per apprezzare
a fondo l’idea innovativa che sta alla base di questo inedito
accostamento tra artisti e musicisti, ricordare le sequenze travolgenti
di Life Lesson (Scorsese, 1989) in cui l’occhio cinematografico
restituisce la sconvolgente sincronicità di suono e segno,
quasi come il simbolo di nuovi possibili orizzonti di creazione?
|
Storie
d’infiniti. Aldo Contini / Maria Lai
di Giannella Demuro |
Il Museo del Vino ha ospitato Storie
d’infiniti, la doppia personale di Aldo Contini e Maria
Lai, accostando due percorsi intrapresi verso la metà del
secolo scorso, i cui esiti, per quanto distanti tra loro, testimoniano
l’altissimo valore degli impianti teorici ed estetici costruiti
dai due artisti nei lunghi anni dedicati alla ricerca e alla sperimentazione.
Dopo gli anni della formazione e le prime prove figurative, a partire
dagli anni Sessanta la poetica di Maria Lai si orienta in maniera
sempre più netta verso i temi dell’identità
e del recupero della tradizione isolana e, attraverso questa, verso
i grandi temi universali della fiaba e del mito. Negli anni più
recenti, l’elemento narrativo ritorna sempre più insistente
nel lavoro della Lai, fino a costituirne la struttura portante.
Per Aldo Contini l’opera d’arte è essenzialmente
“opera aperta”: è l’esito finale di un
processo creativo che non può, però, essere considerato
come un punto di arrivo. È un vero e proprio “atto”
comunicativo inesauribile, che si carica continuamente di significati
nuovi e inaspettati. Si spiegano così le ragioni di un percorso
non lineare, seppure coerente, sempre orientato ad indagare i principi
del fare artistico, le sue ambiguità, le sue incertezze.
Di queste due esperienze di arte e di vita, di queste due poetiche,
la mostra offre alcuni piccoli frammenti: dagli esiti originali
e maturi delle Geografie e delle Fiabe cucite
di Maria Lai al Magnificat di Aldo Contini, fino alle opere
più recenti della loro indagine: Olio di parole
e Retablo pagano.
Intense e di forte impatto, le Geografie: grandi mappe
misteriose che raccontano di terre e di mari, di universi lontani
le cui coordinate si perdono nel groviglio di fili cuciti su morbidi
velluti. E fili anche per i Libri di stoffa: fili che diventano
scritture, parole, fiabe, storie che hanno il fascino di magie e
tempi lontani. Storie che si arrampicano sui fili pazientemente
cuciti dall’artista-cantastorie, che parlano il linguaggio
del sogno e della magia.
Nel 2000 Maria Lai realizza una grande e complessa installazione,
Olio di parole, con la quale partecipa alla Quadriennale
di Roma - una meditazione sull’arte e sulla creazione artistica
attraverso la metafora della coltivazione dell’ulivo. L’opera
è una spirale di legno - su cui si alternano pietre, terrecotte,
fili, ottone, materiali spesso utilizzati nei suoi lavori - che
conduce ad un nero cielo stellato, allo spazio assoluto: un percorso
dolente nei recessi dell’anima, il percorso spirituale dell’artista.
A Berchidda, Olio di parole è stata evocata da una
serie di studi realizzati con legno, ceramica, ottone che vibrano
di atmosfere rarefatte.
Per quanto la riflessione introspettiva e autocritica sia sempre
stata il fulcro nodale della poetica di Aldo Contini, è soprattutto
negli anni Novanta, che l’artista raggiunge gli esiti più
alti e coinvolgenti della sua ricerca. L’esuberanza aurea
della Sala delle Maestà degli Uffizi a Firenze e dei Retabli
catalani delle chiese sarde, costituisce il punto di partenza dello
splendido ciclo di Magnificat: dalle trame del tempo Contini
recupera la preziosità del nobile metallo in opere lignee
sagomate a formare delle croci, vestite dai bagliori caldi e metallici
dell’oro e dell’argento, opere in cui il metallo prezioso
cessa di essere puro riferimento ad una sacralità religiosa.
L’artista gioca infatti con la caducità dei materiali:
all’oro “vero”, inalterabile nel tempo, oppone
quello “falso” facilmente ossidabile e l’oro,
affascinante custode del tempo, è chiamato a rappresentare
una sacralità laica, la tensione dissonante ma potente della
coscienza che scruta se stessa, capace, come l’oro, di resistere
al tempo.
Magnificat ha trovato una nuova e originale prosecuzione
nel recentissimo Retablo pagano, opera in cui Contini,
combinando diversamente gli stessi elementi, propone un nuovo concetto
di spiritualità, più concreta e umanizzata dall’intervento
di un rinnovato/ritrovato “homo faber”.
|
Nell’arte contemporanea, sempre
più spesso, la forma mistifica se stessa (rimanendo in realtà
sempre uguale) spostando il centro dell’attenzione sui temi
e sugli scarti tematici, per cui non sono più gli elementi
formali ad innovarsi, sempre più aderenti nella struttura
ai linguaggi mediali, quanto piuttosto i contenuti, poiché
la forma si dissolve nell’illusione. La mostra Operambigua,
curata da Mariolina Cosseddu, ripropone la medesima questione sull’arte
emersa nell’ultimo decennio, a partire dal moltiplicarsi di
pratiche e tecniche di alta tecnologia o da un ritorno a metodologie
accademicamente tradizionali, su temi e concetti di banale quotidianità.
Un’artista come Giulia Sale, raffinata e parca nel mostrarsi,
innalza a soggetto artistico la mediocrità dell’esistenza,
tutti quegli atti inconsistenti e ripetitivi, privi di valore reale
ma fondamentali per il buon funzionamento dei rapporti sociali.
Sguardo impersonale è anche quello di Gavino Ganau che, però,
sceglie la tradizionale pratica pittorica trasferendo su tela immagini
di poster, modelle da rivista patinata, scene di inutilità
assoluta incastrando immagini altrui attraverso un meticoloso campionamento
di frammenti.
Anche nell’opera di Leonardo Boscani il conosciuto nasconde
in sé l’indicibile: dietro un ritratto di famiglia,
l’immagine di una struttura che è stata una fabbrica
o l’immagine rassicurante di Babbo Natale, emerge il doppio
volto del “non detto”. Altri artisti creano sofisticati
sistemi immaginari che coniugano elementi di realtà e di
fantasia.
In Operambigua la regina dell’ambiguità dell’essere
è sicuramente Greta Frau. Inafferrabile nella forma e nella
sostanza, autrice di sé stessa e delle innumerevoli variazioni
sul tema del soggetto. Come un vampiro gotico possiamo intravedere
le tracce della sua esistenza seguendo quelle delle sue vittime/adepte;
qualcosa in bilico tra delirante realtà ed illusione rassicurante.
Pietrolio costruisce con Nolimetangere una macchina barocca
e ridondante, lo spettacolo di un baraccone circense in cui il dolore,
l’umiliazione, sono l’oggetto dello scherno. L’accanirsi
sul senso di colpa della vittima, per un torto subito e l’ambigua
visione di sé fuori dal corpo, si concretizzano nel gesto
della Fata Turchina che stacca i biglietti dello spettacolo, uccidendo
ogni volta un’innocenza messa in piazza, esibita
e ridotta a merce di scambio.
Trappola visiva pienamente ingannevole è quella di Salis&Vitangeli.
Un mondo scientificamente riconoscibile come reale, ma assolutamente
imprigionato nel troppo nuovo, troppo lontano dall’esperienza
comune eppure così simile all’esperienza quotidiana.
L’assurda aderenza al grottesco della non accettazione delle
regole della vita: nascere, vivere e morire si manifesta nella tela
di Danilo Sini Studio i mostri, mostri non della genetica,
ma di una alienante non adattabilità alla realtà biologica.
Pastorello, mantenendo il suo consueto rigore formale, crea una
serie di tele-interruzioni, interruzioni della comunicazione, in
quello che, banalmente, potrebbe sembrare l’immagine, meticolosamente
rappresentata, di uno schermo televisivo oppure, ambiguamente, una
tela astratto-concretista. Qual è la verità? È
il super eroe mascherato, il disturbatore di un equilibrio estetico
fatto di regole precise: campiture cromatiche decise, sintassi geometrico-costruttiva
cartesiana, oppure un mondo altro che entra a spezzare
la continuità della banalità imperante?
La negazione e l’ambiguità percettiva sono al centro
dell’opera di Gianni Nieddu Sans Papier. L’anonimato
coatto e l’eccesso di evidenza sono lo scotto da pagare per
chi vive sulla linea di confine. Una serie di cartellini con impronte
digitali costruiscono come tanti tasselli di un mosaico un volto,
una presenza. Utilizzando, come fa da tempo, lo slittamento di funzione
di piccoli oggetti di cartoleria, Nieddu sottolinea la drammatica
sottrazione alla dignità dell’esistenza di numerose
identità negate. |
Taghelmoust.
Umberto Mariani
di Mimmo di Marzio
|
«L’uno è nel tutto
e il tutto è in uno». Questo è il motto in cui
è racchiusa la dottrina ermetica che vedeva una diretta trasversalità
tra metafisica e fisica, la seconda come riflesso della prima. I
padri della dottrina ermetica rappresentavano la materia informe
con una circonferenza, materia fecondata dal sole, rappresentato
anch’esso da una circonferenza. Il grafema che ne derivava
è anche il simbolo alchemico del Sale con cui gli ermetisti
rappresentavano la personalità essenziale dell’uomo.
Il Sale, “elemento fisso” che nel simbolismo ermetico
entra in contatto con le influenze esterne rappresentate dal mercurio;
il fango e lo sterco, antinomici alla purezza e alla perfezione
divina e simbolo di isolamento-separazione-distanza e dunque morte
metaforica; la luce ovvero il Fuoco realizzatore esistente nel nucleo
essenziale di ogni essere e significato di volontà, ovvero
slancio verso l’ideale; il Blu, colore di introspezione e
autoanalisi. Raramente come in Taghelmoust il progetto
di un’opera racchiude in modo così essenziale e coinciso
i caratteri primitivi e simbolici del viaggio inteso come esperienza
rivelatrice. Esperienza fortemente autobiografica, quella espressa
dal lavoro di Umberto Mariani che, in queste opere, lascia prevalere
un’oggettualità primitiva che riduce l’iconografia
a codici elementari senza per questo rinunciare all’elemento
narrativo. A questo proposito non appare casuale l’identificazione
delle popolazioni touaregh quale soggetto di un racconto iniziatico
i cui significati si ricollegano alle categorie guida della vita
e ai processi primari di nascita, crescita e consapevolezza. I touaregh
sono soliti dire che il deserto non lo si vive, ma “lo si
attraversa”. Il Ténéré, in lingua touaregh
è però anche “ciò che non esiste”
ovvero “ciò che non esiste ancora”. Nell’opera
di Mariani sono presenti uno a uno tutti i simboli del percorso
trasformatore, quello che lo ha condotto a percorrere duemilacinquecento
chilometri nel deserto del Ténéré alla ricerca
delle antiche saline di Bilma e delle città morte di Djamà
e Djadò. L’attraversamento fisico diviene attraversamento
mentale nell’opera Taghelmoust.
Il Taghelmoust è rappresentato da una lunghissima
striscia di stoffa color indaco. Nel lavoro di Mariani il velo
rappresenta l’elemento oggettuale che congiunge simbolicamente
e formalmente il tema del viaggio alla poetica soggettiva di un
artista per cui il drappeggio rappresenta l’icona ideale dell’arte
occidentale. Il drappeggio diviene contenuto e contenitore dell’opera
nei differenti dialoghi con le forme architettoniche sia quando
funge da basamento o corona alle sculture, sia quando si fa carico
di una funzione apparentemente decorativa e quasi liturgica. Ecco
allora che le quattro forme assumono sequenzialmente il valore ora
di figura di sfondo, perdendo i loro originari caratteri identitari
per assumere il ruolo di ancestrali archetipi. La rappresentazione
emblematica ed evocativa esprime ancora una volta, e con un’aura
pop derivante dal gigantismo delle forme, la poetica di un artista
la cui ricerca è tradizionalmente incentrata sul confine
ambiguo tra realtà e apparenza, identità e illusione.
In Taghelmoust l’elemento autobiografico si fonde
col messaggio archetipico delle forme e della materia che compongono
edifici immaginari: come il sale, estratto dal deserto e faticosamente
trasportato dalle carovane dei dromedari come un bene prezioso quanto
la vita stessa; come il fango e lo sterco che contrappongono all’ideale
di purezza cristiano una sacralità misterica legata al processo
stesso di creazione, crescita e riproduzione.
|
La gaia assenza, a cura
di Leone Laria, colloca al centro della riflessione del fare artistico
il problema comunicativo: artista-opera-fruitore. Questo progetto
è la logica conseguenza di un attraversamento che Laria affronta
percorrendo le periferie, i luoghi ai margini di un centro che di
queste si nutre. Il centro è tale perché è
circondato da altro, da energie che ad esso guardano e in esso confluiscono.
Il titolo rimanda per assonanza giocosa all’opera La gaia
scienza di Nietzsche, evidenziando, in questo modo, l’aspetto
non sense dell’operazione concettuale. Un’operazione
il cui senso non è assente ma è capovolto; altre sono
le assenze: assenza di schema, assenza di messaggio, assenza di
un significato opposto a presenza di scambio, condivisione, relazione.
Le opere esposte a Berchidda per la XV edizione del Time in
Jazz prevedono la presenza e la partecipazione del pubblico,
le relazioni sociali che all’interno degli spazi espositivi
si vengono a creare.
Nelle opere di Stefan Bombaci e di Industrie invisibili
(Stefano Cossu) distinguiamo il concetto di un’assenza unita
all’aspetto gioioso della creazione. Una creazione che permette
di contenere al suo interno la comunione tra l’artista e l’opera,
fra l’opera e lo spettatore. Nel progetto d’arredamento
delle Industrie invisibili questo tipo di relazione si esplicita
attraverso il rito collettivo del caffè e della tisana, offerta
ai visitatori in precise ore della giornata, da condividere all’interno
dello spazio progettato per questa attività.
La nuova filosofia della storia non esclude i rapporti di causa,
ma ci priva del conforto che risiede nel pensare che tutto abbia
una ragione e un fine. Se ci lasciamo ossessionare dalla mancanza
di senso corriamo il pericolo di vivere in un presente dominato
dal disorientamento e da riflessioni chiuse e rimuginate. Se ci
adattiamo a questa logica illogica, invece, possiamo considerare
la nostra intera esistenza come campionatura di oggetti,
in quanto le idee proliferano e viaggiano attraverso gli oggetti
d’uso.
I concetti di condivisione, comunione e relazione, sono centro tematico
anche nelle opere di Markus Keibel e Sonia Rosa Natante. Per Keibel
la condivisione è quella della idee, tema e ed espressione
formale emersa dai percorsi grafici disseminati tra le vie del paese,
frammenti dell’opera Your Freedom is my Freedom,
my Freedom is your Freedom, mentre per Sonia Natante lo
scambio è quello che si crea tra gli elementi bio-chimici
inseriti all’interno di un ambiente primitivo come quello
acqueo.
|
La poesia e la musica possono ridestare
a nuova vita gli esseri sensibili. Questo è uno dei significati
attribuiti al mito di Orfeo. E Il sogno di Orfeo era il
tema del Festival di Berchidda dello scorso anno del quale Paolo
Soriani ha voluto dare, attraverso una estesa ricerca fotografica,
una personale interpretazione.
Quest’anno, nell’ambito di Quadri di un’esposizione
è stata presentata una parte di quelle immagini, una scelta
attenta e significativa fatta non per descrivere ma per
suggerire impressioni, sensazioni, consonanze. È il festival
fatto di poesia, ritmi, luci oltre che di musica ad ispirare le
fotografie e contemporaneamente a permearle di quei ritmi, luci,
suoni…
Come un bambino che entri fra le mura del Paese - Alice nello specchio
- anche allo spettatore viene offerta la possibilità di fare
un percorso. Un percorso conoscitivo che conduce a visitare paesaggi
e stralci urbani che si frantumano nell’immagine finale. Come
se la realtà non fosse che il risultato della frantumazione
dello specchio stesso, dell’unità delle arti che si
realizza solo nello spazio interiore. Quello che viene fuori è
un’interazione di sensazioni, tutte importanti e anzi necessarie
alla costruzione delle immagini e dell’itinerario.
E, se noi, come Alice, ci fermiamo davanti a ciascuno dei sette
paesaggi, ci accorgiamo che si riferiscono idealmente ai concerti
dei musicisti del festival e che il paesaggio-puzzle finale è
un fuori campo indispensabile a chiudere la battuta musicale: il
tempo dei 7/8. L’ottavo elemento diventa l’unità
di misura che dà senso al ritmo dispari di ogni singola foto-ottavo.
Lo scambio tra immagini e suoni si fa serrato, si ha quasi l’impressione
che la sensibilità della pellicola si sia estesa fino a comprendere
le onde sonore e il loro risuonare nello spazio.
I “quadri” di questa esposizione vanno dunque oltre
la documentazione dei concerti e degli altri eventi poiché
sono e vogliono essere la risonanza di tutti i suoni, dell’orecchio
e dell’anima. È la trasposizione musicale dell’esperienza
della visione, dello spazio, in un nuovo spazio che risiede nella
sfera interiore dell’autore ma anche di tutti coloro che sanno,
che vogliono addentrarsi nella sfera dell’emozione. Consonante
con tutto questo, il percorso di Paolo Soriani ci rimanda a
nuove e possibili consonanze. Quelle che ciascuno può ritrovare
in queste immagini e, attraverso queste, nella poesia e nella musica
presente e ridestata della nostra parte più intima.
|
Semida
di Anna Rita Chiocca |
La Land Art, o Earth Art, è
un’esperienza nata negli Stati Uniti negli anni ’70,
che consiste nell’intervenire sulla natura come presa di coscienza
dell’ingerenza dell’uomo su elementi dotati di un ordine
preesistente. L’operazione non consiste tanto nell’installare
sculture all’aperto, quanto nell’utilizzare lo spazio
e la natura come elementi dell’opera. Questa necessità
di dialogo arte-natura è oggi sentita in termini meno invasivi,
il problema della forzatura, della violenza condotta verso l’ordine
naturale, diviene centro del discorso.
Semida è un progetto che nasce in collaborazione
con l’Ente Foreste Demaniali della Sardegna e consiste nella
realizzazione di opere d’arte inserite nei percorsi naturalistici
e didattici della foresta demaniale “Monte Limbara Sud”,
nel rispetto degli equilibri naturali.
Dopo le opere presentate nella scorsa edizione da Bruno Petretto
e Pinuccio Sciola, quest’anno, nei sentieri del museo all’aperto,
Monica Solinas sottopone al nostro interesse una porzione di natura
incorniciata.
La finestra, dall’inizio della storia delle rappresentazioni
visive, è sempre stata il simbolo di una scissione tra il
dentro e il fuori: del doppio sguardo, il nostro, che guarda il
mondo, e quello delle cose che ci guardano. Nell’opera realizzata
sul Limbara da Solinas una finestra, con un sottile schermo in plexiglas,
si pone tra noi e il monte, tra noi e la natura. L’opera definisce
un dialogo empatico con la severa maestosità del luogo, quasi
inaccessibile, fatto di intricati sentieri, semidas, appunto.
Ma se la natura esiste a prescindere dallo sguardo umano, cosa aggiunge
quest’ultimo alla sua bellezza, chi trae vantaggio da quest’unione?
Il lavoro di Paola Dessy si occupa appunto di questo rapporto vita/arte,
natura/paesaggio, dove l’artificiale e il naturale s’incontrano.
Paola Dessy stampa in plotter su fogli di acetato 90 x 200
una foresta di alberi, gli alberi del Limbara, realizzati con colori
ad acqua, facilmente cancellabili dalle mani distruttrici dei visitatori.
Una foresta pronta a svanire, immateriale, quasi un’illusione
sempre in pericolo, nell’emergenza del caos, nell’incertezza
di un’esistenza garantita dalla vigilanza e dalla cura di
pochi.
Una natura questuante, alberi mendicanti, dotati di mani protese,
si materializzano nell’azione di Erik Chevalier. Una natura
violata, forse anche dall’arte, che porta su di sé
il peso di umanizzazioni sempre più violente, di sguardi
sempre meno attenti.
Il rapporto uomo-natura è un rapporto squilibrato a favore
di quest’ultima. Così, Giovanna Secchi interviene
in punta di piedi, sussurrando. Semplicità dei materiali,
gesti minimi. L’artista inserisce, tra le asperità
del bosco, una scaletta musicale realizzata con materiali poveri
e al tempo stesso preziosi: cotone per tappeti e filo d’oro
per ricami. L’arte non sempre è ostile all’ordine
delle cose naturali, e il passo leggero dell’artista è
come il sorriso di Pan. |
|