Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°7
Sommario

Estetica & Gen.etica
Julia Kissina, Buddha, 1999, C-print, 140 x 110 cm (Galerie Anita Beckers, Frankfurt/M)

di Valerio Dehò

Cyber Narciso
Vi è qualcosa nelle annunciate modificazioni genetiche che non ha la patina del nuovo, ma la ruggine dell’antico. La replica dell’uomo, della sua stessa biologia molecolare, può essere vista da alcuni come un sogno che si realizza. Per altri è una tragica profezia che si realizza. Di “falsi Adami” è piena la storia dell’umanità. Però finora le macchine hanno simulato soltanto alcune parti o funzioni del corpo umano. Anche un bastone è l’estensione del braccio. Da allora, cioè dalla preistoria ad oggi, la potenza dell’uomo è sempre stata orientata all’espansione delle sue capacità, anzi la sua limitatezza è stata vissuta come una sconfitta da cancellare in fretta.
In effetti, ne è passato di tempo, quante macchine sono state inventate per allargare la sfera del potere sulla Natura, e sugli altri uomini. Quante capacità umane sono state espanse nell’universo del non più umano. Il mondo macchinico brulica di fantasmi, di glorie e di sconfitte. La rivoluzione industriale della fine del Settecento inaugurò la corsa impari tra l’uomo e la macchina. Oggi tutto questo non ha più senso, nessun luddista sparerebbe ai cloni, a questi umani che sono tali e basta. Diverso è invece il caso del cyborg in cui la filosofia meccanica che lo governa è ancora una condanna alla dannazione del “mecare”, del commettere adulterio con la natura. La creazione appartiene invece alla “poiesis”, a un fare sempre più vicino all’attività degli dei.
Franca Formenti, Bio Doll, 2002, performance E l’anima? Questo fardello di pochi grammi a sentire i fisiopatologi (tale è infatti il peso che si perde subito dopo la morte), è stato una diga tra l’artificiale e l’umano, ma la compattezza di questo argine viene sempre meno. Se ancora è dato di assistere ad un film come A.I. in cui gli umani mostrano quanto cinismo abbiamo sviluppato nella loro cosiddetta evoluzione e trattano i perfetti piccoli robot come carne da macello, certamente pesa ancora il ricordo fastidioso del golem o del trucco infinito degli automi seicenteschi. Dall’anatra di Vaucanson al Pinocchio di Spielberg-Kubrick il passo è grande, ma la maledizione è una sola. «Macchine siete e macchine rimarrete», questo non lo si può dimenticare, anche se poi le prenderemmo in casa come dei figli dandogli perfino il bacino della buonanotte. Ma l’uomo non è mai stato tenero con i propri fratelli, almeno da Caino in avanti, cioè da sempre. L’inferiorità va sempre dichiarata, inferiorità strutturale, chip al posto della materia grigia, colore di pelle o rivestimento siliconico: le differenze sembrano permanere.
Ma la clonazione apre uno spiraglio di indeterminatezza che rinvia direttamente all’orrore. L’uomo dinanzi al se stesso sta zitto, si contempla come Cyber Narciso, quasi si compiace di tanta illuminata potenza. Già i replicanti di Phil Dick erano bella gente, ma era fiction. La pecora Dolly è simpatica e scottish, ma ha ancora dei problemi da superare. Comunque la strada è segnata. Povero Strindberg se vedesse non solo un suo doppio attraversargli la strada di Stoccolma, ma addirittura una dozzina prendere il caffè vicino alla Torre blu, scriverebbe un nuovo e insonne romanzo. Fantascienza, certo, ma del tipo «è impossibile andare sulla luna» o «non si può rigene-rare un arto umano». Le cellule staminali tra un po’ ce le impianteranno in ambulatorio e con la mutua, altro che fantascienza.
L’arte aspetta, registra, prolifera nelle pieghe di una duplicazione al cubo. Ma l’artista resta un Ego con centro se stesso. Non può tacere dinanzi all’estremo Narcisismo di una replica. Umano troppo umano. I figli sono la stessa cosa, ma auto generarsi è ancora più bello, perché è di noi stessi che saremo sempre innamorati anche quando stringiamo la mano di un essere diverso da noi.
Myriam Laplante, Cervo, 2002, stampa lambda, 100 x 200 cm (courtesy Galleria Il Ponte Contemporanea, Roma)Lo fece, il raddoppiamento, quel genio di un Alighiero e Boetti che già negli anni ’60 inventò un suo doppio, in tutto uguale, creando un binomio perfetto perché inscindibile: Alighiero & Boetti. Marchio di fabbrica che mette d’accordo artisticità e soli-dità imprenditoriale, come poi ne abbiamo visti tanti. Quanti sono stati i cloni di Boetti? Tantissimi, coppie vere o di fatto, o di sesso attratte dalla formula della & commerciale che fa tanto cinismo anni Ottanta, ma invece il Boetti torinese l’aveva escogitato per prendere per i fondelli l’arte delle originalità vendute a caro prezzo, l’arte del demiurgo che lavora solo su ispirazione e nel buio della sua stanzetta. La premiata ditta Alighiero & Boetti si faceva invece aiutare nell’impresa, ma è stata lo stesso grande e ha tracciato una strada a tanti giovani artisti che lo hanno eletto (involontariamente) come Grande Clonatore o Sommo Padre. Segreti della genetica che forse un giorno verranno spiegati, in attesa sempre di una mappatura a cui sfugga il gene dell’arte, che da qualche parte del nostro DNA si sarà pure rifugiato.

Santolo De Luca, Dio degradabile, 2001, olio su cartone pressato, 87 x 83 cmVideo nonstrorum
I mostri hanno abitato l’antichità del mondo. Bestie gigantesche venivano avvistate a iosa dai marinai afflitti dalle lunghe bonacce o avvolti da tempeste oceaniche. Oltre le colonne d’Ercole oppure nel favoloso Oriente si aggiravano esseri improbabili ma temibilissimi, scherzi di natura con cui non era lecito scherzare. Ma se era l’Oriente la terra dei Draghi, oggi i mostri nascono nei laboratori farmaceutici, dalla ricerca genetica. Se un tempo la fantasia dell’uomo si dava da fare per inventare curiosi accoppiamenti tra uomo e animale e tra gli animali stessi, oggi l’immaginazione è giunta finalmente al potere, ma si tratta di un potere sconcertante e tutto sotto l’insegna dell’industria genetica. Quello che era possibile alla letteratura, oggi lo è per la scienza. Ma ha un senso dare vita a ibridi, a specie i cui nomi non esistevano nel “Grande Libro della Natura”?
Da un certo punto di vista è vero che l’uomo ha sempre modificato il proprio ambiente e ha creato degli animali sempre più vicini alle proprie esigenze. Gli animali domestici sono tutti frutto di artificio, razze pure praticamente non esistono. Lo stesso vale per le piante. L’artificialità è l’unica naturalezza a nostra disposizione. Ma le possibilità che si sono aperte dicono qualcosa in più perché il mostro non ha più l’empirismo e la casualità del Frankenstein, è il prodotto di un programma di controllo che ha a disposizione una combinatoria sterminata.
Salis & Vitangeli, Houseprinting, 2002, olio e stampa su tela, 200 x 150 cmMa la genetica rimuove le paure ancestrali? No, è vero piuttosto che ne crea di nuove. Così l’arte si popola d’esseri strani con qualcosa di familiare. Vi sono da un lato i fenomeni tipici del baraccone mediatico, mostri di derivazione filmica, che fanno orrore ma soprattutto schifo. Spesso con ironia, si pensi agli indimenticabili B movie della Troma Film, ma con una violenza che è ormai respirabile anche nella vita comune. Allora viene da pensare che l’Oriente attuale sia il mondo mediatico. È questa la fucina degli scempi biologici, dei paradossi di quegli esseri impossibili che seminano il panico nelle menti comuni di gente comune.
Accanto a quest’orrore a basso costo (una parabola satellitare non la si nega a nessuno), vi sono mostruosità umane che esasperano il concetto di diverso fino a farlo coincidere con il reale. Cera o vetroresina hanno popolato l’arte di autentiche e affascinanti porcherie. Particolarmente indagato (e sfruttato perché i mostri rendono sempre bene in termini economici e di audience) il genere ha prodotto e sta producendo un Circo Barnum artistico che spesso scende nel sessuale per lo scandalo che ci meritiamo. L’artista, spesso americano, colpisce un target, non approfondisce nulla di quanto sta accadendo e produce un’estetica teratologica. I mostri e gli anni ’90 sono stati anticipati dalla fotografia. Witkins su tutti, ma anche tante belle mostre organizzate dentro e attorno ai musei di storia naturale come quello della Specola di Firenze. L’arte e i video hanno diffuso di tutto dallo splatter al parabiologico, gli ibridi hanno comunque preso il sopravvento sui lucertoloni del Grande Show Biz cinematografico.
 Brian Reffin Smith, 4 Selfportraits James Joyce, Queen Elisabeth II, 2001, laser-print, 21 x 29,7 cm (courtesy Pepperprojects, Berlin) I bimbi naturalmente aggiungono alla deformità anche quell’orrore che deriva dalla loro innocenza (vera o presunta) e in più muovono perfino a compassione. A due o a tre teste, con corpi in cui gli arti si moltiplicano come fossero insetti di una specie sconosciuta, sono entrati nei musei con il loro colorito terreo. Perché alla fine se l’arte è diventata un museo delle cere qualcosa è cambiato o sta cambiando e non in meglio.
Ma ci sono anche forme instabili e inattese, giocattoli che mostrano il proprio lato peggiore, fumetti transgenici, pupazzi che hanno deviato dalla propria missione rassicurante e ormai hanno invaso il territorio della paura. Anche questo cambiamento di segno è interessante perché l’infanzia con tutti i suoi territori limitrofi (innocenza, serenità, gioco, famiglia) diventa un territorio della grande guerra che si sta combattendo tra le Forze del Bene e quelle del Male. Come il Blob ormai mitico, la massa purulenta entra nelle nostre case attraverso le fessure delle porte, attraverso i tubi di scarico del bagno. Non basta non aprire agli sconosciuti, da Poltergeist in avanti sappiamo che basta un tubo catodico. Nemmeno i nostri figli sono al riparo, anzi possono diventare veicoli d’infezione. Così la semplice e serena quotidianità viene scalfita da un orrore a volte sottile, altre devastante. L’innocenza del Mulino Bianco di kinderiana memoria si scontra con il ghigno malefico di giocattoli sempre pronti a ribellarsi agli umani. La Manichinia, città di pupattole e bambocci semoventi, di E. T. A. Hoffmann si è ormai eclissata sotto l’urgenza dei tempi, sotto la loro violenza che nulla risparmia. Addio Principessa Brambilla e addio anche tenero Golem che spaventavi grandi e piccini nel ghetto di Praga. Oggi la paura nasce davanti al camino mentre leggiamo il giornale alla fine di una bella giornata di lavoro: nasce da un peluche che improvvisamente comincia a guardarci in un modo strano.

Arnold M. Dall’O, L’Amore degli animali, 2002, fotografia, pittura, serigrafia, carta da parati, 120,5 x 91 cm (courtesy Sergio Tossi Arte Contemporanea, Firenze)X - Y Code
La struttura del DNA, la sua sequenza di algebra biologica, è stata sempre un riferimento linguistico per altre discipline. È straordinario il numero di citazioni e transcodificazioni che si sono costituite attorno perché il potere di arrivare a comunicare direttamente alla gente attraverso un “oggetto” di questo tipo, non poteva non avere un’eco permanente. DNA, una catena di amminoacidi che vengono letti come un linguaggio. Alla base della vita vi sono parole, come affermato da chi è certamente più in alto di noi dicendo: «In principio fu il verbo». Anche in questo caso c’è il fascino che esercita l’arrivare ai costituenti della materia animata, qualcosa di simile al primo modello di atomo come quello di Bohr, che è stato scelto come il simbolo stesso della scienza atomica, il suo logo. Quindi un simbolo. La spirale della vita è diventata l’immagine di un movimento infinito, di quel movimento che ne genera altri, che non s’interrompe mai, che fa dell’essere perpetuo un principio. Vitale, per l’appunto. Quindi tutto si avvita all’infinito portando i valori della vita a diffondere un modello di scienza e di sapienza. La scrittura, la spirale, le sequenze di X e Y che sono poi il patrimonio dell’umanità unico e imprescindibile, hanno avuto la forza non solo della scienza ma anche quella del sogno.
La semiotica diventa allora come un’amplificazione di questo messaggio che si universalizza non solo per la propria forza intrinseca e costitutiva, ma anche per la sua possibilità di traduzione. Naturalmente i simboli sfuggono alla loro origine, diventano qualcosa d’altro, ma se diventano tali ci sono dei motivi profondi che dobbiamo mettere in evidenza.
E non si tratta semplicemente di porre sullo stesso piano la genetica con tutto il mondo della produzione umana. Si tratta di vedere nella catena del DNA anche un principio umano che ci sottrae all’entropia, al disordine. La ripetizione differente della doppia spirale, è una certezza che il caos può essere allontanato definitivamente, che è un episodio e nulla di più. Nella arti decorative vale lo stesso principio, il ripetere dei motivi dà la certezza che nulla si crea ma tutto si trasforma. Il modulo in architettura annuncia lo stesso principio che è sempre quello del mattoncino che si sovrappone all’altro, ma quel mattoncino vive, si evolve, si modifica con il tempo e nel tempo. In più questo elemento ultimo ha una struttura linguistica, si tratta di parole. Gli amminoacidi sono messaggeri di informazione, sono già attrezzati per convivere con la nostra estrema evoluzione.
Allora il Codice genetico affascina come potere non solo di costruzione ma anche di previsione. A cercare bene è tutto lì o quasi. Ma senza accettare un determinismo di tipo fideistico-religioso. Quando le arti guardano ad esso vorrebbero possederne la forza e la forma, rivelarne la regola soggiacente. Costruire prevedendo come da questa sequenza sia possibile originare uno o mille universi, o comunque quell’universo che a noi sta bene e in cui vorremmo vivere, sembra un paradosso inscritto nella tradizione delle utopie sette-ottocentesche. Nelle sue traduzioni anche gli artisti ne hanno recepito la fascinazione. Chi ricerca una forma, ha trovato finalmente la forma originaria. Le sequenze, le spirali, la vita sottesa e annunciata sono referenti di uno sviluppo infinito, di un’attività illimitata. Contiene tutta l’importanza che ha nella vita umana la ripetizione, la certezza di comprendere e farsi comprendere, ma anche tutto il bisogno di un cambiamento periodico, lento, ma un cambiamento che ci consenta di allontanare l’orizzonte sempre un po’ più in là. Per questo l’espressione “codice genetico” è una di quelle più ricorrenti. Oggi non se ne può fare a meno, dagli OGM ai delitti efferati, tutti cercano di arrivare a svelare il mistero dell’imprinting.
Perché in questo risiede il mistero conclusivo, anche l’arte cerca le origini e cerca di svincolarsi dalla catena temporale. Ma prevale anche il paradosso dell’identità, che sempre cerchiamo per istinto e sopravvivenza. Nel codice l’identità è celata, ma esiste. Bisogna saperla tirare fuori, scoprirla. Ma nel momento in cui la cono-sciamo rischiamo di farcela rubare, di riprodurla rischiando la replica, il doppio, il mostro. Così tutto si tiene e scopriamo alla fine di questo breve viaggio verbale che abbiamo cercato di congiungere l’identico a se stesso, di ricostituirlo nella sua essenza inscindibile. L’arte e la scienza si trovano linguisticamente vicine nel giustificare l’inviolabilità dell’individuo e nel cercare contemporaneamente, proprio nelle mutazioni, la conferma di questo principio identitario. Paradossi dell’uomo che per affermare la sua umanità deve negarla.

Valerio Dehò è critico d’arte contemporanea. Vive e lavora a Bologna. Ha curato la mostra DnArt per la prima Biennale Merano Arte (giugno-settembre 2002). Questo articolo è gentilmente concesso da Merano Arte.

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