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        Ziqqurat n°6 
        Sommario 
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             un'   | 
         
         
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             INFANZIA 
              Infinita    | 
         
         
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          |   Intervista a 
              Zaza Calzia 
              di Mariolina  
              Cosseddu   | 
         
        
      Nel 
        1966, alla sua prima personale, Mauro Manca scriveva di lei: “La 
        serietà, il suo impegno, il suo metodo di lavoro, uniti ad una 
        volontà precisa ed ad un’intuizione chiara dei fermenti, 
        delle ansie e dei valori del proprio tempo ne fanno in Sardegna uno degli 
        esponenti più seriamente impegnati dell’ultima generazione 
        d’artisti”. A distanza di quasi quarant’anni, Zaza Calzia 
        ha sicuramente soddisfatto le attese del maestro, presentandosi, ancora 
        oggi, figura di primo piano nella storia artistica dell’isola, di 
        cui ha contribuito a delineare momenti fondamentali. 
        Da anni lontana dalla Sardegna, vive a Roma, mantiene con il suo paese 
        un legame costantemente rinnovato dalle sue sistematiche presenze, come 
        artista e come parte di una condizione culturale che le appartiene e in 
        cui s’identifica. 
         
        M.C.: Raccontaci quell’esordio sotto l’ala 
        protettrice di Mauro Manca, il clima, negli anni Sessanta, che si era 
        creato a Sassari grazie all’attività dell’Istituto 
        d’Arte. 
        Z.C.: Mauro Manca, una volta insediatosi nell’istituto 
        Statale d’Arte come direttore, iniziò un’azione sostanzialmente 
        rinnovatrice proponendo un linguaggio plastico che fino ad allora non 
        si praticava nell’istituto. L’artista era, così, chiamato 
        ad agire sulla tela in tutt’altra maniera, con segni, macchie, ecc., 
        usando un linguaggio formale nuovo. L’impulso segnico-gestuale fu 
        per me come una nota che si libera nell’aria. Mauro Manca m’indirizzò 
        a scoprire il nuovo fare dell’arte che si praticava nel mondo. La 
        mia adesione a queste sue proposte ludiche e informali fu di totale partecipazione 
        e entusiasmo. A lui devo l’avermi introdotta in un mondo che escludeva 
        la banalità, il folclore e la noia di una pittura provinciale. 
         
        M.C.: Che cosa ha rappresentato per te l’avventura 
        del gruppo “A” e che cosa si è perso, negli anni, di 
        quelle proposte innovative? 
        Z.C.: Il gruppo “A” nasceva per sostenere 
        nella città una proposta di arte nuova, in linea con tutti i fermenti 
        che si agitavano nella penisola. L’avventura del gruppo “A” 
        è stata propositiva anche se non ha dato i risultati che si speravano. 
        È stata un’entusiasmante avventura, tenendo conto che in 
        quel periodo le mostre, le polemiche svolte dal gruppo, smossero una certa 
        pigrizia cittadina. Prese corpo, allora, l’interesse per l’arte 
        moderna e contemporanea, fino allora relegata come un’operazione 
        fatta da un gruppo di artisti stravaganti. 
         
        M.C.: L’esperienza dell’informale è 
        stata, dunque, il primo e già maturo rapporto con l’arte, 
        consolidata poi nel corso del tempo. Vuoi precisare meglio il registro 
        linguistico che hai elaborato in questi pazienti anni d’attività? 
        Z.C.: Dopo i lavori dei primi anni Sessanta, quadri materici 
        di grande formato, nel 1963 abbandonai l’informale per affrontare 
        un concetto mentale del dipinto, escludendo dalla superficie del quadro 
        i colori primari e inserendo sulla tela valori pittorici metallici, ad 
        esempio l’argento, o anche elementi estranei di provenienza industriale. 
         
         M.C.: 
        Che cosa ha comportato, per te, l’attività didattica 
        e quanto questa è importante per chi ha scelto il mestiere d’artista? 
        Z.C.: Sono stata nominata a dirigere la sezione di decorazione 
        pittorica dell’istituto d’arte di Sassari e con l’aiuto 
        di Mauro Manca ho portato avanti il discorso dando il mio contributo al 
        rinnovamento didattico, mettendo a disposizione la mia esperienza per 
        guidare e sollecitare l’immaginazione e la spontaneità dell’allievo, 
        organizzando il tutto in termini di correttezza formale per un risultato 
        di senso compiuto. 
         
        M.C.: Non secondaria sembra essere anche, nelle tue 
        scelte operative, la pratica artigianale, quella che coniuga, come nel 
        tuo caso, disegno professionale e sapiente manualità. Quanto influisce, 
        sul tuo lavoro, quest’aspetto pragmatico? 
        Z.C.: Credo che questa sia, come osservò Gianni 
        Murtas, la risposta attiva di un mio percorso interiore che trova nel 
        piacere della fisicità una dimensione di memoria quotidiana. 
         
        M.C.: Dalla pittura fortemente gestuale degli anni 
        Sessanta e Settanta sei giunta alla serena, meditata contemplazione espressa 
        dagli acquerelli. Da cosa nasce e perché ti è così 
        congeniale questa tecnica? 
        Z.C.: L’acquerello, che è una tecnica antica, 
        mi ha sempre affascinato per il suo minimale rapporto materico, perché 
        l’acquerello si dipinge con l’acqua, e procedendo per velature 
        ricopre la nota già fissata per farne acquistare profondità, 
        vibrazione e luminosità, caratteri che da sempre perseguo nelle 
        mie composizioni. 
         
        M.C.: Nel tuo lavoro è stata continuamente 
        sottolineata la presenza dialettica di due anime, una analitica e una 
        emotiva. Può la progettualità alimentarsi di una condizione 
        esistenziale personalissima ed esprimerla poeticamente nel rigore strutturale? 
        Z.C.: Nella mia ricerca, la presenza analitica è 
        data dall’apprendimento al fare, mentre quella emotiva fa parte 
        della mia personalità. Entrambe mi appartengono, la prima per formazione 
        e impegno intellettivo, la seconda per temperamento non trasformato nel 
        corso degli anni. 
         
         M.C.: 
        Nel 1983 Salvatore Naitza ti rivolgeva una domanda curiosa, del cui 
        peso provocatorio era evidentemente ben consapevole. Te la ripropongo 
        fedelmente: “Quanto ha contato il fatto che Zaza Calzia è 
        una donna, sia nei confronti della sua “fortuna”, sia nelle 
        sue scelte d’artista?” 
        Z.C.: La mia scelta d’artista è la scelta 
        di una donna che ha voluto cercare con il suo talento e nel suo valore 
        la sua affermazione. Ma mi piace anche risponderti con quanto aveva giustamente 
        notato Manlio Brigaglia, quando sosteneva che la mia pittura si era fatta 
        più femminile senza sminuire il mio impegno appassionato al mestiere. 
        Anzi, riconosceva proprio una sorta di tenerezza vibrante che, lui diceva, 
        non è peccato indicare come caratteristico della psicologia femminile. 
         
        M.C.: Punto d’approdo dell’attività 
        di questi ultimi anni sono le “Lettres découpées”, 
        i collages pazientemente e liricamente composti. Che cosa rappresentano 
        nella tua visione artistica e perché ritornano con sistematica 
        regolarità? 
        Z.C.: Le Lettres découpées, da 
        un certo tempo rappresentano la mia attenta passione per il collage. In 
        effetti, il collage è una semplice operazione dove si incolla tutto 
        ciò che l’artista ritiene importante per organizzare un suo 
        racconto visivo con elementi insoliti. Le Lettres découpées 
        hanno un impianto strutturalmente geometrico, al cui interno si svolge 
        un racconto gioioso e a volte drammatico. 
         
        M.C.: Questa particolare forma compositiva sembra 
        chiamare in causa una dimensione a te familiare, credo, per temperamento 
        e vissuto interiore: la giocosità infantile, il candore e la serena 
        attitudine a fare della quotidianità una fiaba infinita. È 
        davvero così? 
        Z.C.: Non so rispondere con precisione, perché 
        la mia giornata, come il mio lavoro e la mia vita, sono fatti di una serie 
        continua di domande senza risposte. 
         
         M.C.: 
        Eppure il ricorso alla serialità, alla sequenza e variabilità 
        di una stessa grammatica di base appartiene al tuo linguaggio come uno 
        spartito ogni volta diversamente interpretato. C’è rapporto 
        con la musica o con il metro poetico? 
        Z.C.: Si, è possibile, anche se non ne sono sempre 
        consapevole. C’è però, nel mio lavoro, in particolare 
        nelle Lettres découpées, una struttura ritmica 
        che già Anna Maria Janin aveva individuato come una partitura musicale. 
         
        M.C.: Oggi, a guardare il panorama artistico internazionale, 
        il tuo linguaggio può apparire isolato e lontano dalle ricerche 
        più attuali. Come vedi la situazione contemporanea e come ti poni 
        nei riguardi del disordine che ci circonda? 
        Z.C.: Io appartengo a una generazione che si è 
        maturata nei valori della pittura informale e il mio linguaggio è 
        senz’altro lontano dalle ricerche attuali. Se la situazione oggi 
        è caratterizzata da questo forte disordine, anch’io sento, 
        tuttavia, di essere parte di questo tempo confuso e problematico. 
         
        M.C.: Dell’arte in Sardegna, invece, dalla tua 
        postazione romana, cosa ne pensi e come ti senti in questo ruolo d’artista 
        “emigrata”? 
        Z.C.: Dell’arte in Sardegna ne deve parlare chi 
        ci vive, chi ci opera. Io sono lontana, legata affettuosamente alla mia 
        isola. 
         
        M.C.: La multiformità delle esperienze vissute, 
        la saggezza dell’età, la fanciullezza di un animo che sembra 
        non abbandonarti mai, cosa fanno oggi di un’artista chiamata Zaza 
        Calzia? 
        Z.C.: Sono sempre Zaza Calzia con sfrenata passione per 
        il mio lavoro di pittrice. Non so altro aldilà di questa irrinunciabile 
        verità. 
      Zaza Calzia (Cagliari, 1932) vive e lavora a Roma. La sua più 
        recente produzione artistica rilegge in una nuova luce la tecnica del 
        collage, già sperimentata negli anni ’60, con le Lettres 
        découpées, opere realizzate con lettere ritagliate dai 
        giornali e riorganizzate con sensibilità compositiva e sapiente 
        uso del colore. 
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