Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°6
Sommario

 

Y Liver, And I’ll dance with you in Vienna, 2000, performance

Intervista a Y Liver

di Anna Rita Chiocca

Sans domicilie fix

Y Liver, And I’ll dance with you in Vienna, 2000, performance

 

 

l terreno su cui si muovono Y Liver (Rugiada Cadoni e David Liver) è l’irrappresentabile, il sublime attraverso la frequentazione del doppio, l’assenza, l’erranza, la circolarità, elementi che si affiancano ai concetti opposti di privazione/protezione e ad un’indagine sulla fragilità dell’identità.

A.R.C.: Come nasce il duo Y Liver?
D.L.: L’idea del duo nasce dal vissuto quotidiano di coppia che per sua natura porta alla condivisione di esperienze comuni. A furia di mettere il naso nelle idee dell’altro, non restava da scegliere che “la firma”.
R.C.: Y Liver (che non si traduce in Y fegato) si compone della Y, l’androgino alchemico, e da Liver, appunto, il cognome di David…
D.L.: … un vero matrimonio anagrafico.
R.C.: Abbiamo mantenuto il suo cognome soprattutto per sottolineare il riferimento alla cultura Yiddish.

Y Liver, Ivrim, 2001, performanceA.R.C.: “Il sublime è un luogo d’ambiguità, mira a manifestare in via indiretta l’insufficienza d’ogni rappresentazione rispetto ad ogni ideale estetico”. Mi pare una definizione perfetta del vostro lavoro già a partire da IVRIM 1999. Cos’è IVRIM? Come nasce?
D.L.: IVRIM è stato il nostro primo progetto comune, una performance nella quale tutti gli elementi - cibo, festa, polaroid, tracce dell’azione - servivano a destabilizzare l’attenzione del pubblico. L’intera azione si reggeva semplicemente sulla chiusura di una porta, dietro la quale non importa che rito si svolgesse, dal momento che non era visibile. Era importante, invece, l’idea di un pubblico in attesa, chiuso fuori, esiliato dall’evidenza dell’azione, l’idea di portarlo all’attraversamento passando per le sue aspettative.
IVRIM infatti significa “coloro che hanno attraversato” e, in questo caso, non è solo la parola che significa “ebrei” ma è la chiave di lettura del lavoro, nel quale la performance era l’attesa stessa, comprese le delusioni.

A.R.C.: Lo scorso ottobre, a Roma, avete presentato proprio questo lavoro. Come è stata l’accoglienza rispetto ad una città di provincia come Sassari?
R.C.: La performance nella Galleria di Pino Casagrande, curata da Emma Ercoli, non ha avuto differenze di accoglienza rispetto a Sassari: chiaramente, Roma offre un pubblico più numeroso e vario. La galleria di Pino si prestava particolarmente, perché è ampia come un respiro ed è completamente bianca, dal soffitto al pavimento. Praticamente perfetta per IVRIM.
D.L.: Questa volta lo spazio nel quale mi sono chiuso era quello più grande, quindi l’impatto del pubblico con le tracce lasciate dal rito in quella stanza così ampia e vuota è stato molto forte. Una differenza importante è stata la presenza di persone dell’ambiente ebraico romano, con le quali abbiamo potuto confrontarci. L’esito è stato positivo.

Y Liver, Ghefillte fisch, 1999, videoinstallazione, performanceA.R.C.: Il rito e la festa sono sempre accompagnati dalla danza, la musica e il cibo. Le vostre performance hanno preso spesso l’aspetto di una festa o meglio di un coinvolgimento festoso ad un rito artistico. Il cibo e la musica appaiono due presenze costanti, come rientra tutto questo in un discorso artistico?
R.C.: Il cibo e la musica sono senza dubbio un piacevole condensato di esperienze attorno alle quali si è aggregata la gente ed è nata la cultura.
D.L.: Il cibo è spesso presente nel rito e nella letteratura, anche in forma mitologica e simbolica; è un dono e come tale implica un’aura sensuale che mitiga l’austerità di alcuni aspetti concettuali. Ha un carattere seducente che si contrappone alle nostre azioni, dove il pubblico è costretto all’attesa.
R.C.: È piacevole riflettere gustando qualcosa di buono, c’è un cibo per l’anima e uno per i sensi. In questo modo l’opera si dilata e si dissolve.
D.L.: Queste considerazioni valgono anche per la musica, che è una forma d’espressione e comunicazione atavica, oltre ad essere quella che più influisce sulla cultura ed il costume giovanile.
R.C.: Anche noi ne siamo molto influenzati.

A.R.C.: La musica è un elemento formale e narrativo in molti dei vostri lavori. Penso al ritmo e all’evocazione che fa da fil rouge tra And I’ll dance with you in Vienna - dove un uomo ed una donna saltano su una rete finché questa crolla - e il video Trielegia: intermezzo Po-Lin nel quale l’uomo salta da solo, la donna è fuori in un altro spazio visuale. E’ solo una casualità?
R.C.: In entrambi i casi erano due elementi ad avvicinarsi, il suono (quello della rete del letto) e l’elevazione del salto. Nella performance fatta al Borderline di Sassari, And I’ll dance with you in Vienna, al suono prodotto dai salti sulla rete si era aggiunto il ticchettio di un metronomo in tre tempi.
D.L.: Era la struttura, lo spettro di un sogno viennese. L’immagine è chiara.
R.C.: Come al solito ci si sveglia con il crollo del letto.
D.L.: Volevamo ballare sul Danubio blu, per quanto oramai misero e ridotto all’osso; almeno fin quando fosse possibile. Raggiungere qualcosa di “altro”, anche se può provocare dolore. Questa è un po’ la trama dei due lavori, nei quali la grevità del salto/volo produce quel rumore pesante e stridente della rete finché anch’essa non desiste.

Y Liver, Sukkoth, 2000, performanceA.R.C.: Anche lo schermo è un elemento che ritorna e non solo per la scelta di lavorare con il video. In Sukkoth 2000 mi è sembrato interessante l’utilizzo dello schermo come metafora e come elemento formale. Lo “schermo” come rivelazione di una visione obliqua della realtà, la traccia di una visione indiretta delle cose. Da cosa nasce questa necessità di separazione, d’esilio reciproco artista/pubblico?
D.L.: L’idea di separazione o esilio artista/pubblico, nasce dalla necessità di creare un’aspettativa e dei percorsi mentali. Lo schermo è comunque la condizione con cui viviamo la realtà, indirettamente, così come i ricordi e la cultura: tutto in modo filtrato. La costruzione di un’identità è quindi frutto dell’esperienza mediata dell’Io con il mondo. La stessa cultura Yiddish io la vivo da lontano, ma probabilmente grazie a questo si crea quella tensione che arriva in profondità disegnando un percorso creativo e libero. Questo è il valore dell’esilio e dell’attesa.

A.R.C.: Addirittura in S.D.F. Il vestito della festa la performance è l’esilio. Ricordo che invitaste un ipotetico pubblico, attraverso un annuncio sul quotidiano La Nuova Sardegna, a partecipare alla vostra partenza. Il porto è un non-luogo, un transito e il viaggio è una componente importante del vostro percorso artistico: in che misura incide sui risultati artistici, ora che non vivete più in Sardegna?
R.C.: Dai nostri continui spostamenti, non sempre dovuti a scelte, prendiamo lo spunto per il lavoro. Ad esempio, ora abbiamo ricevuto lo sfratto e dobbiamo quindi riorganizzare tutto.
D.L.: Non è forse una buona opera concettuale?

A.R.C.: Direi che è un'ottima opera concettuale! I titoli dei vostri lavori sono spesso fuorvianti, allontanano lo spettatore dalla reale percezione del significato. Penso a Ghefillte fisch o Intermezzo Po-Lin. Quanto è importante conoscere il senso del titolo dato alle vostre opere? Ha a che fare con le origini Yiddish?
 Y Liver, Zahav, 2000, performanceD.L.: E’ questa, per noi, la caratteristica più vicina ad un’attitudine yiddish sia dell’arte sia della vita: esercitarsi nel muovere il pensiero sui terreni scivolosi dell’incertezza e della precarietà. E’ una linea continua che parte da Abramo che decide di lasciare la terra del padre, fino ai tempi più recenti, un filo che intreccia la dimensione pragmatica della necessità ad una dimensione più astratta. Si può cercare il significato delle cose anche attraverso il loro nome. L’anima delle parole ha una forma dinamica, prospettica e non se ne conoscono mai gli sviluppi che avranno nei percorsi mentali che le veicolano.
R.C.: Spesso i nostri lavori prendono forma dal titolo, che se è stato scelto è perché indica la strada sulla quale muoversi per dire quello che ci interessa: ghefillte fisch, ivrim, zahav, ma anche je t’aime … moi non plus. Questi non rimangono solo titoli, infatti nelle nostre fotografie e nei video, sono presenti come scritte, diventando parte dell’immagine.
D.L.: Il fine è sempre quello di coltivare il dubbio come un capitale d’investimento.

A.R.C.: Tra le pratiche da voi adottate la performance e il video sono quelle prevalenti. Cosa pensate della critica fatta alla 49a Biennale di Venezia di avere esposto troppi video e opere fotografiche?
R.C.: Il problema non è l’utilizzo del video o la fotografia, ma il fatto che questi servano sempre più a legittimare lavori che in realtà esistono solo perché “trendy”, grazie proprio al mezzo utilizzato.
D.L.: È vero che nella scelta dei mezzi c’è in buona parte l’idea di un’opera: ma il video non può essere solo il mezzo che giustifica l’unico fine di esserci. Alla base di tutto sta un fraintendimento dell’idea di abbassamento qualitativo e innalzamento quantitativo.
D.L. e R.C.: Comunque questa è la scena artistica odierna ed è giusto che sia così presente in manifestazioni come la Biennale di Venezia.

Rugiada Cadoni è nata a Lecco nel 1977. David Liver è nato a Le Havre (F) nel 1977. Vivono e lavorano a Milano.

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