Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°6
Sommario

  teoria della percezione
intervista a
Tonino Casula
 Casula, La figlia della triglia s’impiglia nella rete, 1991, diafania, musica, Catinari-Meloni-Capalbo, 16’59’’
di
Maria Dolores Picciau

M.D.P.: È passato molto tempo dai tuoi esordi. Cosa ricordi di quel periodo?
T.C.: Ricordo il mio primo disegno sul quale avevo rappresentato una nave vista dall’alto senza la linea dell’orizzonte mentre il mare avvolgeva completamente tutto lo spazio. Amavo guardare le immagini che mio padre fotografo scattava e ogni tanto abbozzavo qualche schizzo su un quaderno che conservavo gelosamente. Il primo olio l’ho realizzato a diciassette anni nel 1948. Devo dire che è stato un vero e proprio disastro perché non avevo saputo rapportare la quantità di colore con le piccole dimensioni del supporto. Intanto a scuola mi ero dedicato al fumetto e avevo già rappresentato tutti gli episodi dell’Iliade e dell’Odissea. Purtroppo sin da allora mi trovavo in una condizione di semicecità e per disegnare gli oggetti li dovevo tenere sotto il naso. Anche la mia percezione del mondo era una sorta di mosaico che mi ero costruito mentalmente attraverso immagini viste in fotografia. Da parte mia perciò c’era il desiderio di riprodurre le cose, gli oggetti nell’intento di governarli e di possederli. Non c’è voluto molto poi per abbandonare la rappresentazione referenziale, la somiglianza con la realtà.

M.D.P.: Quando è avvenuta la svolta?
T.C.: Ricordo molto bene i meccanismi di questo passaggio. Avevo un amico nel Sulcis Iglesiente con il quale andavo a fare lunghe nuotate in un piccolo fiume della zona e durante il tragitto discorrevo con lui di arte. Era più grande di me di due anni e durante quelle lunghe chiacchierate parlando delle Avanguardie e in particolare del Futurismo avevo capito che si poteva trasferire nel quadro qualcosa di astratto come il tempo. Mi rendevo conto che era possibile fare molto più di quello che appariva o avevo imparato a scuola.

M.D.P.: A un certo punto una ectopia del cristallino e della pupilla ti ha deformato la vista in entrambi gli occhi. Quanto ha inciso questa particolare esperienza nella produzione di quegli anni?
T.C.: Quella particolare vicenda ha alimentato maggiormente in me la voglia di sapere e di capire. Era un’esigenza servirmi di tutti i mezzi espressivi a disposizione. La scrittura, ad esempio, è esplosa casualmente durante le mie lezioni in una scuola elementare di Assemini. Su quell’esperienza difficile ma significativa ho cominciato a scrivere nelle pagine de L’Unione Sarda su invito di Alberto Rodriguez. Così a un certo punto ho raccolto quegli scritti rivolti ai ragazzi ed è nato il libro Impara l’arte edito da Einaudi. Per quanto riguarda l’attività di pittore la cecità mi ha fatto studiare con più attenzione i problemi della percezione visiva ed approdare ad alcune esperienze significative.

M.D.P.: Che rapporto hai con l’arte in genere e con le opere che hai realizzato?
T.C.: Verso l’arte in generale ho un rapporto di curiosità, anche se uno come me che ha sperimentato tutto e ne ha fatto di tutti i colori non si sorprende più di nulla. L’esperienza fa diventare molto esigenti e ti aiuta a capire subito le problematiche di un’opera, per cui stupirsi diventa sempre più difficile. Nei confronti di ciò che ho fatto ho sempre mantenuto un atteggiamento divertito. Ogni volta che inizio un nuovo lavoro, sull’onda dell’entusiasmo penso che si tratti di un capolavoro, poi quando lo osservo con più distacco rimango puntualmente deluso e allora inizio a lavorare su un’altra opera. Comincia così una ricerca continua che non trova mai appagamento. Solo dopo qualche tempo riesco a rivalutare e ad apprezzare quel lavoro iniziale che mi aveva deluso, questo succede sia con i libri che ho scritto sia con le opere che ho realizzato.

Casula, Lucernario n.2, 1968, nitroacrilico su plexiglass e masonite, 76 x 76 x 33M.D.P.: Nel 1966 insieme ad Ermanno Leinardi, Ugo Ugo ed Italo Utzeri, sulla scia della optical art tedesca, firmi il documento programmatico che dà vita al Gruppo Transazionale. Con un atteggiamento nuovo antiromantico, portate una ventata di novità in Sardegna e conducete ad oltranza una sperimentazione continua. Come definiresti questa esperienza?
T.C.: Portare avanti quelle idee è stato importante per la formazione e il percorso di ciascuno di noi. È stato un movimento lungimirante che ha precorso i tempi. Uno dei pochi se non l’unico, che è nato in Sardegna e che ha avuto delle ripercussioni in tutta Europa. Per la prima volta si è cercato di dare uno statuto di scientificità all’arte. Offrire all’arte degli strumenti logici, razionali e rigorosi allora era una grande novità, qualcosa di estremamente dissacrante. Siamo riusciti a distinguerci nettamente da altre correnti del periodo. Anche chi allora aderiva alla optical art si diversificava da noi, non adottava infatti il nostro stesso rigore perché era più eterodiretto di noi. Mentre altri movimenti nati nella penisola come il gruppo T avevano un’impostazione gestaltica e innatista e si riferivano ad una scuola di psicologia nata in Germania, il nostro criterio transazionale invece era molto più dialettico e meno metafisico. I gestaltici sostenevano che esiste un isomorfismo tra forme fisiche e forme mentali, e quindi tutti indistintamente, uomini e animali comprendono la realtà allo stesso modo, e se la percezione era per loro un fatto semanticamente compiuto per noi era diverso.

M.D.P.: Cosa ricordi di quel periodo?
T.C.: Ci incontravamo spesso nello studio di Leinardi, che si trovava in via Lamarmora a Castello. Spesso quegli incontri erano un'occasione per divertirci e fare quattro chiacchiere. Un giorno su una rivista d’arte pubblicata a Napoli Op. cit leggiamo un articolo intitolato Gestaltismo e oltre, in cui compariva una definizione sul criterio transazionale. Per me era stata una vera e propria folgorazione. La mia particolare esperienza di vita, la cecità, mi avevano da tempo avvicinato ai problemi della percezione visiva, infatti la loro conoscenza era per me di vitale importanza. Un secondo incontro era avvenuto oltre che con Leinardi, Ugo ed Utzeri anche con tanti altri artisti, alcuni dei quali non solo non avevano accettato di buon grado le nostre idee ma ci avevano sbattuto la porta inorriditi.

M.D.P.: Hai avuto la fortuna di operare in un periodo molto stimolante e il merito di aver operato attivamente perché le cose cambiassero. Che cosa è mutato oggi da allora?
T.C.: Questa avventura percettologica era durata un anno, era entrata nel mercato subito per bruciarsi in un attimo. La fortuna è che dopo quell’esperienza eravamo ancora considerati dei giovani artisti. Un tempo non mancavano gli stimoli culturali e politici. Mentre prima, infatti, l’impegno politico serviva a discutere e a costruire ora non ci sono più ideali, mancano gli strumenti per capire e confrontarsi.

M.D.P.: Nel 1988 hai realizzato un grande murale in via Seruci, una delle zone più malfamate di Cagliari. Credi che l’arte possa ancora avere oggi una funzione sociale?
T.C.: È la televisione oggi ad avere questo tipo di ruolo e i sondaggi politici fanno da padroni. I leader di partito ad esempio prima di scendere in campo cercano di sapere attraverso accurate indagini da che parte è utile schierarsi e così scelgono di conseguenza. La nostra è una società capitalistica dove contano solo gli affari e i soldi. Lo dimostrano purtroppo la strage americana, l’assalto alle torri gemelle e la guerra in Medio Oriente.

M.D.P.: Perché il mercato dell’arte in Sardegna è in crisi secondo te?
T.C.: Questa crisi è legata al fatto che in Sardegna c’è un numero di abitanti piuttosto limitato, che ormai le pareti delle case sono piene di quadri e che la tecnologia ha allontanato le persone dagli artisti, cui non si fa più riferimento per sapere certe cose.

M.D.P.: Che cosa ti ha spinto ad abbandonare il pennello a favore del computer?
T.C.: Si tratta di una forma di comunicazione più libera e in più il computer ha il vantaggio di essere uno strumento, un esecutore molto veloce. All’inizio il computer mi ha spaventato, poi tutto si è sviluppato col lavoro. Il dubbio nasceva dal timore di smarrire il mio ruolo di artista di fronte a quella macchina, di perdere di autorità. Il computer invece ti da risposte in pochi secondi, e questo in realtà ti rende potente.

M.D.P.: Pensi che la computer art sia destinata a durare?
T.C.: Se per durata intendiamo ciò che comunemente riguarda le opere d’arte in senso stretto, rispondo di no. Questo tipo di espressività artistica, infatti, è strettamente legata alla tecnologia e perciò è soggetta a una continua evoluzione, a mutamenti veloci. Lo prova il fatto che ho iniziato con le animazioni bidimensionali, cosa che non mi dispiaceva visto che mi teneva legato al mio passato pittorico dove la superficie del quadro era piatta, poi sono passato a programmi tridimensionali e così ho sperimentato gradualmente strumenti sempre più sofisticati sul piano funzionale e tecnologico. È insomma una forma di espressività strettamente conseguente ai progressi che la tecnologia compie.

M.D.P.: Ti sei dedicato a numerose tecniche artistiche e da ultimo il computer. Cosa sperimenterà in futuro, ancora, Tonino Casula?
T.C.: Ho smesso di piantare alberi da qualche tempo. Credo di aver chiuso e di aver sperimentato tutto. La morte non mi spaventa spero solo di morire dignitosamente.

Tonino Casula (Seulo, NU 1931) vive e lavora a Cagliari, opera nell’ambito dell’astrazione geometrica occupandosi di percezione visiva e psicologia della forma. La sua ricerca ha progressivamente assunto una dimensione tecnologica che, negli ultimi anni, è approdata a forme di computer art.

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