Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°5
Sommario

Il linguaggio della pittura
di Gianni Murtas

 

Tra rigore e passioneRosanna Rossi, “Pieno era il sole di maggio...”, 1996, striggiole su compensato, Ø 150 cm (foto Anna Marceddu)
Incontro con
Rosanna Rossi
di Gianni Murtas

G. D.: Il Grande cerchio, che alcuni anni fa hai realizzato sulla facciata di un palazzo del centro di Cagliari, mi sembra un’opera chiave, un’opera che permette di cogliere il senso più profondo della tua poetica e del tuo rapporto con il mondo: rigore progettuale, passionalità, interesse per il sociale. Quella che da lontano si percepisce nella sua valenza formale di tipo geometrico, si rivela, poi, un’opera carica di ulteriori significati: dai frammenti colorati di vetro riciclato, non solo motivi cromatici e decorativi, ma elementi taglienti, alla perfezione del cerchio, dall’integrazione e sinergia dei colori alla dolorosa frammentazione dell'elemento materico.
R. R.: Per me, questo lavoro ha soprattutto il valore del contrasto, della contrapposizione di un materiale - il vetro colorato, rotto, crudele, ferente - all’interno di una struttura geometrica, pulita, ordinata. Come molte mie opere, il Grande cerchio parte da una poesia, in questo caso I limoni di Montale, quella che parla dei cocci di vetro, infissi nei muri come nelle stradine dei quadri di Rosai, che io ricordo di aver vissuto, da bambina, quando vivevo in Toscana. Mi sono spesso ispirata ai grandi poeti del ’900, cercando nella poesia una coincidenza soprattutto con gli aspetti visivi, quelli che riguardano, più che la parola, il colore e la forma.

Rosanna Rossi, Bituminose, 1998-99, bitume, alluminio, olio, 26 x 46 cm (foto Anna Marceddu)G. D.: La componente geometrica, razionale, è una costante che ritorna in tutta la tua produzione. Come mai senti tanto urgente la necessità di dare ordine a questo tuo mondo?
R. R.: È un qualcosa di cui ho bisogno. Odio l’approssimazione e, per questo, sento il bisogno di studiare nel modo più approfondito ciò che voglio raccontare e dire, e questo, ovviamente, mi porta a razionalizzare: non può essere che così. L’equilibrio è necessario, anche nel fare qualcosa di negativo, non perché esso sia il valore massimo della positività, ma perché è quell’elemento che ti permette di conseguire il fine che volevi raggiungere.

G. D.: Parli di equilibrio, ma nei tuoi quadri l’elemento geometrico, per quanto presente, non è mai dato come assoluto e definitivo, al contrario, mi pare che l’uso del colore, o della forma, sia una modalità che utilizzi per alterare proprio quell’equilibrio, per andare oltre quella che può essere una perfezione e una fissità iniziale.
R. R.: Io non cerco l’equilibrio come forma stabile, cerco un equilibrio che sia instabile, dinamico. E il problema sta proprio qui: nel trovare un peso che nella sua differenza riequilibri la situazione dall’altra parte. Io accetto, d’altronde, ma in fondo scelgo, che nei miei quadri possa esservi da una parte equilibrio e, dall’altra, anche un decentramento.

G. D.: Questo che tu chiami decentramento, questa alterazione dell’equilibrio, mi pare ancora più evidente nel tuo percorso, quando dai quadri passi ad opere che si caratterizzano per una forte componente materica e, più tardi, negli anni Novanta, all’installazione. Insomma, è come se il cambiamento, la rottura dell’equilibrio ti portasse ad uscire dai quadri e ti spingesse verso forme espressive diverse, si direbbe, più “libere”.
Rosanna Rossi, Guanti dell’incisore, 1996-1997, guanti di plastica su compensato, 120 x 170 cm (foto Anna Marceddu)R. R.: Forse ho preso più coscienza di me e, quindi, ora oso di più. Ma anche prima, far accettare il mio lavoro - alcuni dei miei quadri, dei miei acquerelli - non è stato facile, anzi… Eppure, a quel tempo, ritenevo che quella fosse la libertà. Per quanto riguarda la materia, oltre il fatto che l’uso di materiali diversi è presente da tanto tempo nel mio lavoro, se noti, il valore metodologico è sempre lo stesso; cioè, anche nelle opere che presuppongono, apparentemente, una differenza di precisione, anche là c’è una misurazione che la sottende, anche se poi l’aspetto di superficie sembra uscire dalla regolamentazione di linea più linea.
La mia prima installazione, comunque, l’ho fatta nel 1982 alla Galleria comunale di Cagliari e, in quell’occasione, avevo utilizzato della lana, dei cordoni di lana che avevo fissato al muro con dei chiodi. Quell’opera, inspirata a Kandinskij, presentava lo stesso rigore degli altri miei lavori. L’uso della lana mi era stato suggerito, oltre che da un contesto riguardante il “femminile”, da un ricordo d’infanzia. Da piccola, infatti, aiutavo le donne del paese dov’eravamo sfollati a fare cordoni che poi venivano utilizzati per gli usi più disparati. Dopo questa prima installazione, però, non sono andata avanti ed è stato solo dieci anni dopo, nel ’92, che ne ho realizzato un’altra: le installazioni si possono realizzare solo se esistono spazi idonei per accoglierle, e io non ne avevo ...

G. D.: Mi colpisce la tua vastissima produzione. È come se, per te, il lavoro fosse una grande passione ma anche, allo stesso tempo, una “sfida”: nei confronti di te stessa, degli altri, dell’arte…
R. R.: Ho sempre invidiato gli artisti che hanno potuto lavorare dietro commissione e ciò, forse, per la mia necessità di sentirmi utile. Quindi, in mancanza di una commissione esterna, sono sempre stata la committente delle mie opere. Ho i cassetti pieni di appunti, non appunti isolati, ma serie di 50/70 lavori, come delle note di viaggio, piccole cose che nessuno vedrà mai. Ogni lavoro è una scalata e, però, il piacere è sempre quello del confronto con gli altri.
Ritengo che l’arte debba suscitare meraviglia. In genere, tendo a fare qualcosa che sconvolga la mente di un altro, anche se, certamente, non in termini distruttivi. Insomma, il valore verso cui l’arte tende non è certo l’acquiescenza. È evidente, che nel momento in cui ti trovi davanti una superficie bianca, senza tracce, e la modifichi, è perché vuoi cambiare quella superficie e, in realtà quello che vuoi modificare è il rapporto con il mondo. È per questo che lavoro.
In questo senso, la sfida è sempre presente nei miei lavori, nei primi come nei più recenti, incisioni di grande formato. Fare incisione, cimentarmi manualmente, in un certo senso, costituisce anche questo una sfida in un mondo che vive di tecnologia.

G. D.: Prima abbiamo parlato del sentimento della libertà, che ti ha portato, soprattutto negli ultimi anni, a rompere gli equilibri, le griglie razionali, per far emergere l’istintività, la passione. È possibile che l’aver espresso tutto questo anche attraverso l’uso di un’iconografia legata al femminile - guanti da cucina, pagliette di metallo, spazzole - sia nato da una sempre maggiore capacità di autoriconoscimento del tuo essere donna?
R. R.: Sono cresciuta in un’epoca in cui firmarsi Rosanna Rossi, a Cagliari, significava dichiarare il proprio sesso, per cui i primi quadri li firmavo R. Rossi. Mia madre, che comprava i miei quadri per sovvenzionarmi, sentiva ciò che dicevano gli altri: «Bravo, questo R. Rossi». Nessuno pensava che fossi una donna e anche ciò, per me, è stato un motivo di lotta. Forse, ora, per le giovani generazioni non è più così.

Rosanna Rossi, Senza titolo, 1989-90, olio e acrilico su tela, 22 x 25 cmG. D.: Però, quella componente femminile che hai negato in te, in questi anni recenti è comparsa prepotentemente nel tuo lavoro.
R. R.: In Étoile, il lavoro dei guanti gialli, ci sono diversi spunti. Intanto, sono partita da un’emozione, le Panatenaike di Fidia, e da alcuni riferimenti all’arte del ’900, Sironi, De Chirico, il significato del guanto vuoto. A questo aggiungi l’altro riferimento, contemporaneo e americano: quello delle Star che immergono le mani nel cemento e che utilizzano la propria impronta per lasciare un segno di sé nella storia. Così, ho fatto quest’opera pensando ai guanti di una donna qualsiasi e che lavora in casa, che li utilizza per non sporcarsi le mani o per non rovinarsi le unghie. Guanti gialli, perché giallo è il colore dell’intelligenza, della luce ,e che ho chiamati Étoile, cioè “stella” , “diva” col termine europeo, rivendicando anche in questo una cultura non americana, ma europea e pensando alle Panatenaike, cioè alla nostra cultura: al susseguirsi di fanciulle che formano il corteo, che si muovono lentamente, che vanno verso l’altare avvolte nei loro drappi. Insomma, è un lavoro fatto con ironia nei confronti dell’America ma anche con la coscienza che la storia ha stratificato dentro di te immagini, suoni, che appartengono a tutto il tuo contesto. Mentre i guanti d’artista, quelli neri, sono drammatici perché acquisiscono altri pensieri, non certo di vitalità e gioia.

G. D.: E il lavoro con le spazzole? Anche lì c’è un elemento femminile.
R. R.: No, non è proprio così. Mentre il richiamo al femminile è voluto nei lavori dei guanti e delle pagliette di ferro, in quello con le spazzole è stato casuale. Ero in una drogheria e sono stata entusiasmata da quel giallo e, allora, ho pensato che avrei potuto realizzare un quadro con quegli oggetti.

G. D.: Nei tuoi lavori procedi spesso attraverso la serialità. Una volta hai detto che questo modo di procedere ha a che vedere con i tuoi ricordi infantili del periodo della guerra. In che modo, però, l’esperienza della guerra entra nella tua ricerca?
R. R.: Credo che la ripetitività, la serialità che c’è nel mio lavoro, dove una stessa immagine è ripetuta costantemente anche se diversificata in dettagli minimi, dipende da cose che io ricordo, da racconti, da immagini che ho visto dopo la guerra. Da bambina stavo in un piccolo paese, Gragnola, sulla Linea Gotica e spesso scappavo di casa per andare vicino alla ferrovia a vedere passare i treni. Mi è capitato di vedere passare dei treni che trasportavano ebrei, dei carri bestiame con delle facce dietro i finestrini col filo spinato e delle mani che ne uscivano fuori. Ho sempre vivo il ricordo di quelle mani che uscivano dalle fenditure dei vagoni, le stesse immagini che ho visto poi nei film e nelle fotografie. Ma era il numero quello che mi sconvolgeva, la quantità: la quantità dei morti, ma anche la quantità dei vivi. Mi aveva colpito particolarmente la prima immagine che avevo visto di questi uomini, i letti a castello con le facce delle persone, da qui è nato il lavoro con le pagliette di metallo dove ho cercato di rendere il senso della ripetizione. Il numero è ciò che mi è rimasto sempre impresso: le moltitudini di gente, le ossa degli uomini nelle fosse, i buchi delle pallottole nei corpi, le facce dentro il treno. Ma l'uccisione di massa è quello che, oggi, mi sconvolge ancora.

G. D.: La tua attività artistica è iniziata fuori dalla Sardegna. Cosa è cambiato da allora ad oggi? Cosa ricordi dei tuoi inizi come artista, la vita a Roma, il rientro in Sardegna e i limiti di questa rispetto alla capitale?
R. R.: Sai, a Roma ho fatto delle esperienze straordinarie, poi sono tornata qua e ho dovuto faticare per mettermi in rapporto con una realtà che era totalmente diversa da quella che avevo vissuto fino ad allora, ho dovuto ricominciare da zero perché a Cagliari c’era una situazione totalmente diversa da quella romana. Per questo ho legato con artisti che, come me, venivano da fuori, Primo Pantoli, Gaetano Brundu, artisti con i quali avevo la possibilità di discutere su quello che si faceva. Pensa che raccoglievamo dai giornali tutte le informazioni che trovavamo su un pittore che ci interessava, poi ci riunivamo e discutevamo, cercavamo di capire il perché delle cose. Alla mia generazione sono mancate alcune condizioni, al massimo potevamo avere una galleria autogestita, ancora non c’era la galleria comunale.

Rosanna Rossi,Vasi di Pandora, 1997, installazione, misure ambiente (foto Marco Ceraglia)G. D.: Però, in Sardegna hai incontrato Mauro Manca. Quanto la sua figura ha contato sulla tua formazione?
R. R.: Devo dire che in quegli anni Mauro Manca mi è stato davvero molto vicino. Allora, erano i tempi della disputa fra astratto e figurativo, e io lavoravo sulla figura. È stato lui che, buttandomi allo sbaraglio, mi ha aiutato a trovare la mia dimensione che io, allora, non avevo ancora messo a fuoco.
Quelli sono stati anche gli anni dei viaggi: sono sempre partita per cercare compagni, per cercare padri, che so, Klee o Soto, o Vasarely in certi periodi, oppure Giacometti. Ho fatto un giro di musei in Europa, proprio alla ricerca di questi compagni di avventura.

G. D.: Ed oggi, come vedi la situazione dell’arte in Sardegna, a distanza di tanti anni?
R. R.: Oggi, in Sardegna, gli operatori artistici, i critici, non visitano gli studi degli artisti e questo limita la possibilità di una crescita degli artisti stessi attraverso la discussione e l’incontro. In questo modo ci vuole molta costanza, molta forza, devi realmente credere in quello che fai, devi costantemente rinnovarti, devi sognare costantemente. Io non penso che altrove sia così.
Nel ’58-’60, ci si riuniva tutti, ci si incontrava, si discuteva sul lavoro che si faceva e questo era vitale: allora c’era il Centro di cultura democratica. Il Centro era frequentato da quello che al tempo era il fior fiore dei critici e degli intellettuali, molti dei quali ora sono morti: Manacorda, Dorfles, Scirese, Maltese, Rosiello. Si cercava di essere uniti nella discussione che riguardava l’arte, il gesto dell’arte, che è sempre qualcosa di più profondo del semplice fare artistico, riserva delle sorprese, che essenzialmente sono le visioni del mondo, e se non discuti quelle…

Rosanna Rossi, Omaggio, 1998, olio su tela, 10 x 15 cm (foto Anna Marceddu)G. D.: Tanti anni dedicati alla ricerca, tanti anni di lotte e di grandi passioni. Oggi, a distanza di tempo, come vivi il tuo rapporto con l’arte?
R. R.: Una cosa che ho capito da non molti anni è che l’arte è tutta un battito cardiaco: è respirare, essere vivi. Il battito cardiaco ti dà il ritmo. Se hai un affanno, se sei ripiegato su te stesso, se hai un battito accelerato, forse hai corso. Se sei calmo e sereno forse stai solo guardando, pensando, dormendo. Per me l’arte dev’essere proprio come lo scorrere del sangue nelle vene. È un respirare diversamente anche quando uso un piccolo pennello per fare una parete di 2 metri per 2. Faccio un lavoro grande pur essendo il mezzo tecnico piccolo, perché il respiro diventa un’altra cosa. Poi ci sono, naturalmente, momenti in cui mi sento triste, depressa, penso soltanto a ciò che vivo, alle notizie che mi arrivano dal mondo e le metto nei miei lavori. Spesso ho dedicato delle opere agli avvenimenti del nostro tempo: ho fatto una incisione sulle Twin Towers, ho fatto molti quadri dedicati a Borsellino, a Sarajevo, e altri ancora.

G. D.: Però, è evidente che un lavoro come Gerusalemme, la “porta” di filo spinato, segna un passaggio importante nella tua ricerca, anche se vi compaiono elementi presenti in altre opere, un passaggio che, magari, non è avvenuto per altri della tua generazione.
R. R.: Ma l’arte cresce, non puoi non metterti in discussione. Io sono così innamorata di quello che faccio che qualsiasi cosa diventa per me pretesto per continuare ad essere innamorata.

G. D.: Non tutti accettano, però, di mettersi in discussione. Nel tuo caso, invece, sembra che il rimetterti continuamente in gioco sia come un prolungamento naturale di uno stato giocoso, infantile.
R. R.: Credo che l’infanzia sia il momento della vita che ti lega a te stessa, per sempre. C’era una frase che avevo scritto molto tempo fa per una prima mostra a Roma. Avevo scritto che, da bambina, quando i miei genitori mi lasciavano da qualche parte, andavo a cercare dei sassolini bianchi, piccoli piccoli. Li prendevo e li mangiavo, così mi sembrava di prendere il sole, e ce n’erano tanti, piccolissimi e luminosi. Anche allora, insomma, era la luce ciò che maggiormente mi affascinava. Una volta ero malata e mio padre mi aveva portato dei colori. Ricordo ancora il primo disegno, avevo tre anni. In fondo, io passo il tempo ancora così, come allora…


Rosanna Rossi è nata a Cagliari dove vive e lavora.

 

Il linguaggio della pittura

di Gianni Murtas

La presenza di una componente vitalistica che si affianca e si contrappone ad un’altra più analitica e razionale è una costante della pittura di Rosanna Rossi. La tensione tra sentimento e ragione non è infatti prerogativa di un particolare momento, ma attraversa tutta la sua produzione segnandone in profondità il lungo e articolato percorso.
Dalle prime prove figurative sul finire degli anni Cinquanta fino alla composita astrazione dell'ultimo periodo, la sua ricerca si definisce sempre più chiaramente come un inseparabile connubio di volontà espressiva e rigore progettuale.
Questa spiccata ambivalenza, che negli esordi si traduceva in istintivi cambi di registro stilistico, o in un inquieto vagare fra le connotazioni esistenziali della figura e le declinazioni materico-gestuali del segno, col tempo è diventata una strategia complessa, arricchendo il linguaggio pittorico di infinite sfumature poetiche. Così l’abbandono della figurazione ha assunto per Rossi una dimensione tendenzialmente sincretistica, espandendosi tra il polo astratto-informale e quello neoconcreto in un misuratissimo lavoro di sintesi formale. Senza mai uscire dai confini di una raffinata manualità, la pittura si è fatta di volta in volta strumento di analisi e di racconto, di costruzione e di espressione; tanto che il muoversi su crinali metodologici storicamente in contrasto, l’oscillare tra versanti opposti della sintassi pittorica alla ricerca di un equilibrio fra il dato mentale e quello oggettuale dell’opera hanno finito per avere un ruolo decisivo nella sua ricerca.
Il processo di interpolazione dei due universi semantici avviene gradualmente, ma già i lavori degli anni Sessanta, caratterizzati da sperimentazioni aniconiche di matrice astratto-concreta, rivelano una precisa intenzionalità nel fondere le suggestioni naturalistiche del colore con l’artificiosità spaziale del segno e della superficie. È però nei primi anni Settanta, con le “modulazioni cromatiche”, che la pittura di Rossi definisce i suoi connotati più peculiari. Sospesa tra l’ordine progettuale di una geometria morbida che limita l’interpretazione simbolica del gesto creativo riconducendo le pulsioni istintive all’oggettività dei codici linguistici, e l’ansia esistenziale di un segno che mantiene comunque forti connotazioni espressive e condiziona l’esecuzione, l’astrazione assume una dimensione insolitamente aperta, che sembra affermare e negare nello stesso tempo il valore assoluto della forma.
Gli sviluppi successivi sono in gran parte compresi in queste premesse. Dal linearismo costruttivo delle Cartesiane alla geometria minimale delle composizioni a bande orizzontali, dalle sintesi modulari della geometria segnica degli anni Ottanta ai ritorni informali delle recenti sequenze circolari, è un continuo alternarsi e sovrapporsi di istanze razionali e di emergenze espressive che si incontrano e si scontrano generando un crogiolo di traiettorie stilistiche. Il prevalere ora delle valenze emotive, ora di quelle più fredde e concettuali del linguaggio astratto non comporta però fratture e contrapposizioni frontali tra un ambito e l’altro. I sistemi linguistici che danno origine alle sintesi formali non nascono infatti su ipotesi teoriche alternative, ma da un atteggiamento quanto mai empirico che filtra tanto la fredda autoreferenzialità dei processi di costruzione pittorica che le connotazioni esistenziale del colore e del segno.
Passata attraverso tutte le declinazioni della nuova astrazione, l’artista sembra volerne armonizzare i confini semantici riducendo le valenze ideologiche per far posto ad una maggiore disponibilità al soggettivo, al contingente. Senza disperdere la sapienza linguistica e le potenzialità simboliche progressivamente accumulate negli anni, la pittura salda nel vissuto le sollecitazioni eterogenee che l’alimentano, generando una ricerca sempre lucidamente pensata ma comunque attenta alle ragioni del cuore. Abituati a pensare la trasversalità e la dimensione soggettiva dell'operare estetico come un prodotto della crisi del Moderno, si finisce, in questo caso, per scoprire una multiformità stilistica e poetica di tutt’altra natura. Che un tale modo mediato ed obliquo di rapportarsi con la storia dell’astrazione sia per certi versi paragonabile all’approccio del Postmoderno nei confronti della tradizione d’avanguardia è vero, però occorre tener conto che per Rossi il percorso di trasformazione resta saldamente ancorato agli orizzonti del Moderno: di un Moderno capace però di rileggersi e di ripensarsi senza aspettare le meccaniche onde del riflusso. Semmai va sottolineato come, superata l’ottica manichea che risolveva la contrapposizione tra soggettivo e oggettivo, tra ordine progettuale e libertà espressiva, in una inevitabile antinomia ideologica, sia più facile riconoscere che le ricerche di confine si siano rivelate le più ricche di esiti creativi. E non per una maggiore e superficiale rispondenza ai precetti rigorosamente antideologici e antiprogressivi del Postmoderno, ma per la qualità delle sintesi simboliche e formali, per la capacità di approfondire maggiormente l’analisi degli elementi intrinsecamente estetici del linguaggio visivo.
Nata sotto il segno di una irrinunciabile ambivalenza stilistica, la ricerca di Rossi ha saputo trasformare l’apparente irresolutezza in una qualità metodologica di grande spessore poetico, in una avventura creativa ancora capace di arricchire gli orizzonti dell’astrazione contemporanea. E forse in questi termini risulterà più facile capire come il salto dal figurativo all’astratto prima, e il continuo oscillare tra le molte declinazione dell'esperienza astrattista poi, sia stata non solo un passaggio maturato nel confronto col contesto esterno della ricerca, ma un’esigenza interna del suo percorso poetico, un progressivo tradursi degli spunti esistenziali nel linguaggio puro della pittura.


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