Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°5
Sommario

Sipario sulla
platea Alessandra Tesi, Opale 00, 1999-2001, videoproiezione su tela con microsfere di vetro, installazione a luce ambiente, 232 x 310 cm, still da video
di Harald Szeemann
intervista al direttore della Biennale appena conclusa
di Giannella Demuro

Ron Mueck, Untitled (baby),2000, silicone, tecnica mista, 26 x 12,1 x 5,3 cmG. D.: Soltanto pochi mesi fa, quando lei inaugurava ufficialmente la prima Biennale del Terzo millennio, credo che nessuno, almeno in Occidente, potesse immaginare un’intuizione tanto puntuale, da parte degli artisti, dei segnali di una “storia” così tragicamente incombente come i luttuosi eventi di questi giorni hanno poi dimostrato. Adesso che la 49. Esposizione Internazionale d’Arte si è conclusa, ritiene possibile fare un bilancio su questi mesi così intensi, su una manifestazione che ha prodotto così tanti eventi e che, soprattutto, è stata essa stessa “evento”, che ha avuto tantissimi spettatori e che ha suscitato anche tante polemiche?
H. S.: Per me è sempre così. Sa, quello che io propongo, in una mostra o in una rassegna, è un “mondo temporaneo” e in questo caso le polemiche non servono, perché il mondo è lì, ed ognuno può giudicarlo come crede, bene o male. Mi è sembrato, però, che quest’anno a Venezia ci fossero due specie di pubblico: all’inizio c’è stato il “mondo” dell’arte, della stampa - che ha criticato, ad esempio, la presenza di troppi video - e poi, da settembre fino ad oggi, c’è stato un pubblico che ha veramente capito che alla Biennale si deve andare come in chiesa, di stazione in stazione; un pubblico che ha colto nelle opere - e soprattutto dopo l’11 settembre ho ricevuto molte lettere a questo proposito - i segni di un rinnovato interesse per l’individuo; un pubblico che ha riconosciuto come tutto questo, naturalmente, andasse contro la globalizzazione e che ha anche percepito le molte premonizioni riguardo quello che è poi effettivamente accaduto. Ho letto anche oggi un Do-Ho Suh, Floor, 1997-2000, figurine di plastica, lastre di vetro, assi fenolici, resina poliuretanica, 40 moduli, 100 x 100 cmarticolo che sottolineava il fatto che Minnette Vári, Do-Ho Suh e altri, con il loro lavoro, hanno veramente dato forma alla sofferenza di un paese, ai problemi legati alla sovrappopolazione e al controllo delle nascite. Nell’articolo venivano citati anche il “Papa” (La nona Ora) di Cattelan e il fatto che, in questa mostra veneziana, fosse circondato da serbatoi di petrolio proveniente dall’Arabia, il collage Islam di Rotella e il lavoro di Maaria Wirkkala, per la quale solamente gli animali possiedono il dono di “legare” la Bibbia e il Corano. E poi, ancora, il film di Wallin che dimostrava che non c’è modo di scappare dai grattacieli, e così via. Ecco, mi è sembrato che nella seconda parte della Biennale questi contenuti siano stati più chiaramente recepiti rispetto all’inizio. Naturalmente, però, c’è da dire che il successo della manifestazione è dovuto anche a quella grande massa di pubblico che è venuta all’inaugurazione e che ha reso il tutto un avvenimento. Io avevo promesso di rimettere la Biennale in sella, di farne nuovamente un avvenimento internazionale, e penso di aver raggiunto questo scopo.

Matthieu Laurette, Help Me to Become a U.S. Citizen! Financing contract for citizenship, 1998, work in progressG. D.: In effetti, la “premonizione” di cui lei parla è, senza dubbio, una delle cose che colpisce maggiormente nella Biennale di quest’anno, e il collage di Rotella, che lei ha citato, diventa un’ulteriore conferma della capacità dell’arte di vedere le cose “oltre”. Per cui, in questo senso, la dichiarazione di intenti che lei già aveva espresso nel titolo Platea dell’umanità, non è stata solo espressione di un’attitudine “umanista”, come viene spesso definita la sua impostazione, ma, piuttosto, qualcosa di ancora più reale e più concreto.
H. S.: Quando ho scelto questo titolo che, tra l’altro, è stato anche molto criticato, ho spiegato che non si trattava di un tema ma di una “dimensione”. In realtà, siamo tutti un po’ stufi di queste mostre con venti o trenta artisti, scelti seguendo il “gusto” del momento. Credo, invece, che oggi, una grande mostra come la Biennale, soprattutto se si tratta della prima nel nuovo secolo, dovrebbe essere sostenuta da un’intuizione più grande e più profonda per quello che accade. Per questo abbiamo esposto da un lato, la nave per l’aborto di Atelier Van Lieshout, creata per aiutare i paesi dove l’aborto è vietato e per sostenere l’autonomia della donna nella scelta di avere o meno un bambino e, dall’altro lato, l’elicottero di Heli Global Art Tour che raccoglie fondi per i bambini malati di AIDS nell’Africa del Sud. Mi pare che, in questa mostra, si veda chiaramente come gli artisti che si sono rivolti nuovamente verso l’individuo, siano ora pronti ad allargare la nozione dell’arte al sociale. Inoltre, appare evidente che tutto questo si è mosso in parallelo a quella che è stata la ribellione contro il G8, con il popolo di Seattle, pur nelle diversità di pensiero e di ideologie. Quello che ho veramente cercato, in questa Biennale, è di evitare i simboli, vale a dire che un’intenzione deve di nuovo nascondersi dietro la forma che la rappresenta. Per raccontare questo periodo ho scelto Beuys, che in un momento diverso, ma altrettanto critico, era riuscito, con i suoi lavori a dirci che esiste un’altra forma possibile di società. Intitolando la Biennale “Platea dell'umanità” o meglio “plateau”, preferibile all’insoddisfacente traduzione italiana, ho voluto segnalare le due possibili vie indicate attualmente dall’arte: l’ideologia e l’interesse per l’essere umano. Queste sono, a mio avviso, le due possibilità che permettono, oggi, la più grande apertura verso altri temi e altri soggetti. E questo spiega come mai dAperTutto includesse gli artisti cinesi: mi sono reso conto, cioè, che in Occidente non c’è più quello spirito di “sovversione” che c’era una volta, durante l'ultima rivoluzione nell’arte degli anni ’60, e ho pensato di introdurlo attraverso questi artisti che vogliono cambiare qualcosa nel loro paese ma, nello stesso momento, devono anche trovare una forma “estetica” che possa dialogare con noi. Dallo spirito del primo Aperto dove, ad esempio, non c’era differenza di età o di sesso tra gli artisti, volevo allargare questo discorso alla fine del secolo e all’inizio del nuovo.

Maaria Wirkkala, Found a mental connection, 1998, installazione, dimensioni variabiliG. D.: Si è parlato di realtà “periferiche”, del fatto che lei abbia aperto la Biennale alle realtà artistiche periferiche, ma nel suo progetto, i concetti di “centralità” e “periferia”, in un certo senso, coincidono.
H. S.: Ecco, è chiaro che dietro c’è sempre un linguaggio giornalistico. Due anni fa si è parlato dei “cinesi” e adesso questo, in modo altrettanto ironico, è stato definito l’anno dei “finlandesi”. Abbiamo ospitato volentieri questi artisti, che vengono da una regione che produce mostre interessanti e che offre infrastrutture efficientissime, ma dalla quale gli artisti hanno, però, difficoltà ad uscire, nonostante abbiano realizzato opere veramente straordinarie, come i video che hanno presentato in questa Biennale. Si tratta di un paese dove la presenza femminile è molto forte, basti pensare che è l’unico paese al mondo governato da una donna presidente, e anche le espressioni artistiche più interessanti vengono soprattutto da artiste donne. Ciò che mi ha colpito è il fatto che il Ene-Liis Semper, FF/Rew, 1998, 7’, still da videoloro linguaggio toccasse una sensibilità che non è stata ancora percepita come sensibilità centrale, come ha dimostrato, invece, il video del suicidio di Ene-Liis Semper dal titolo FF/REW. Insomma, è chiaro che ho fatto delle scelte non con la volontà di illustrare qualcosa, ma badando a che ci fosse un contributo centrale a ciò che si chiama arte e, allo stesso tempo, che fosse presente, nelle opere e negli artisti prescelti, un’“estensione”, una volontà di andare oltre i propri limiti. Anche oggi, durante la conferenza stampa di chiusura della Biennale, qualcuno mi ha chiesto dove va l’arte e se l’orientamento sia verso il figurativo. Beh, quando si tratta di mostrare un comportamento nel tempo, non si tratta più di essere o meno figurativo, si tratta di seguire un fenomeno nella sua evoluzione, ed è per questo, ovviamente, che i giovani amano più il video che fare quadri. Nonostante ciò, abbiamo anche mostrato in quale direzione si muove una pittura possibile, una pittura figurativa, e anche in questo caso la provenienza delle opere non era quello che potremmo definire il centro storico dell’Ovest, ma la regione dietro il “Muro”, dove si sviluppa una figurazione, l’unica che ho inserito come esempio, diversa da quella di Polke, Baseliz, di Luperz e altri.

G. D.: Lei non si è limitato ad applicare i concetti di “apertura” e di “altrove” ai paesi e agli artisti ospiti, ma ha aperto e reso fruibili anche nuovi spazi fisici. Non parlo solo degli edifici monumentali delle officine e dei cantieri dell’Arsenale, anch’essi appena “ceduti” all’arte, ma del fatto che, quest’anno, la Biennale è uscita da Venezia, per occupare sedi espositive anche in altre città, quali Udine e Palermo. Questa scelta rientra sempre nell’ambito della politica da lei perseguita o ci sono state altre motivazioni?
Magnus Wallin, Exit, 1997, animazione 3D, still da video H. S.: Uno dei motivi per cui abbiamo esteso fuori Venezia le manifestazioni della Biennale è il fatto che qui, durante la mostra, ci sono talmente tanti avvenimenti, che è praticamente impossibile aggiungerne di nuovi. Ma questo, forse, è un altro aspetto significativo di questa Biennale.
Sono, infatti, appena rientrato da un viaggio in cui ho visitato molti dei paesi che hanno partecipato per la prima volta alla Biennale, per mantenere dei buoni rapporti con loro ma anche per motivarli a partecipare ancora. Sa, quest’anno abbiamo avuto tante partecipazioni nazionali come mai prima, e così, molti di questi paesi, attraverso la “finestra” della Biennale, vogliono dimostrare che appartengono all’Europa e, per questo, cercano un contatto: un contatto che non sempre avviene attraverso forme di ricerca attuali, ma, anzi, talvolta si esprime con linguaggi superati, ma questo, in fondo, non è poi così importante. Sì, la presenza di nuovi paesi è, senza dubbio, un altro aspetto di cui bisogna tener conto. Mi sembra quindi che, in questo momento, non si debbano limitare le mostre a latere soltanto alla regione della laguna, ma che si possa anche sostenere un progetto di displacement straordinario come quello che Cattelan ha voluto per Palermo, o comeHeli Rekula, Untitled (from theme Pilgrimage), 1996, stampa a colori montata su alluminio e laminata, 120 x 90 cm quello della collezione Marzona a Villa Manin. Ecco perché non ci siamo limitati a prendere in considerazione solamente ciò che è stato proposto per Venezia: perché questo corrispondeva allo spirito della Biennale. Sin dall’inizio, infatti, con l’estensione degli spazi della Biennale - l’Arsenale e la sua apertura al mare - abbiamo voluto dare il nostro sostegno per la realizzazione di eventi che forse, altrimenti, non sarebbero stati realizzati. Per quanto riguarda Palermo, ad esempio, fin dall’inizio abbiamo chiarito, come era importante fare, che la Biennale non avrebbe potuto sostenere il progetto economicamente, ma che si sarebbe presa la responsabilità “culturale” dell’avvenimento. Questo mi sembra un modo di procedere naturale, dal momento che la Biennale, sebbene sia la più “anziana” tra le manifestazioni di questo tipo, voleva anche essere la più attuale.

G. D.: Lei ha affermato di non amare i “simboli”, ma la Nona ora di Cattelan, che lei ha appena citato, non è, forse, un simbolo?
Maurizio Cattelan, La Nona Ora, 1999, installazione H. S.: Effettivamente Cattelan, che era già stato qui due anni fa durante i giorni dell’inaugurazione con il “fachiro”, quest’anno ha presentato la Nona ora, con intenzioni forse un po’ polemiche. Ma, vede, secondo me la figura del Papa non è un simbolo, è piuttosto la dimostrazione della solitudine di un uomo. Una persona che prende decisioni tanto importanti come, ad esempio, quella sull’aborto o sulla contraccezione, e da cui dipendono i comportamenti dei tanti che credono ancora alle sue parole e alle sue decisioni, a mio avviso, è veramente la persona più sola del mondo. Questo senso di solitudine è stato particolarmente avvertibile qui a Venezia, dove l’opera era circondata da serbatoi dai quali fuoriesce ancora la puzza del petrolio che una volta veniva usato dalla marina militare. Inoltre, anche il fatto che l’opera risultasse in connessione con Islam di Rotella, ha contribuito a renderla parte di una situazione mentre nell’Apocalisse, il “Papa” era in una sala di museo, solo. E se in un primo momento, Cattelan era un po’ esitante sull’opportunità di esporre questo lavoro, quando ha visto l’ambiente - uno spazio diverso da quello “estetico” di un museo - si è trovato d'accordo, perché qui il suo intervento non era più solamente una scultura-simbolo raffigurante un Papa colpito da un meteorite.

G. D.: L’avere aperto la Biennale a tanti giovani, molti dei quali non proprio sconosciuti ma, forse, non conosciuti da tutti, è un segno di attenzione nei confronti di chi è appena all’inizio di un percorso di ricerca ma anche una grande opportunità che lei ha offerto loro.
H. S.: Credo che i giovani, soprattutto in occasione di avvenimenti di questo genere, possano trarre vantaggio dalla vicinanza di artisti più conosciuti, come Twombly o Richter. Questa è sempre stata un po’ la mia tendenza e ho sempre cercato di dare loro questaMinnette Vári, Oracle, 1999, animazione video, video 2’, audio 6’, montato all’infinito, dimensioni variabili, still da video opportunità, come nel caso di Rachel Whiteread, che ha colto l’occasione nella mostra di Amburgo e altri ancora. Io penso che la “miscela” giusta debba porre l’accento sui più giovani, come nel caso di questa Biennale dove loro hanno fatto da contrappeso ai grandi. In fondo, stava proprio in questo la drammaturgia interna della mostra. È chiaro che se si incontra un artista giovane che convince, si inserisce l’artista giovane, se, invece, risulta convincente l’artista anziano si fa lo stesso con lui, come nella scorsa edizione della Biennale, dove Louise Bourgeois, con le sue sculture di grandissima intensità e con i suoi tessuti, esprimeva l’erotismo dei nostri giorni, in modo molto più forte e convincente di un artista giovane. Non ci sono strategie che indichino una direzione o un’altra. Si deve riflettere sul che cosa la mostra, come “mondo temporaneo”, può dare al massimo grado, in questo momento.

G. D.: Una battuta per concludere. Come lascia questa Biennale?
H. S.: La lascio come sempre, in questi casi. Ho scelto di fare delle mostre nelle quali c’è un pezzo di mondo così come io lo vedo ma, dopo l'inaugurazione, io sto già pensando alle nuove…..


Harald Szeemann è nato a in Svizzera nel 1933. Nel 2001 è stato il direttore della quarantanovesima edizione della Biennale di Venezia. Attualmente divide il suo tempo tra la KunstHaus a Zurigo e la sua agenzia “The Factory”.

(Foto: courtesy La Biennale di Venezia - 49. Esposizione Internazionale d’Arte)

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