| Ziqqurat n°4
 Sommario
 | Le forme della 
        memorianelle ceramiche di
  Caterina 
        Lai
 di Maria Dolores Picciau Nemmeno con le parole, che scivolano quasi misurate, riesce a turbare, 
        intaccare l’immagine radiosa e insieme malinconica che il suo sguardo 
        diretto è capace di trasmettere all’interlocutore. Caterina 
        Lai è un po’ come la sua arte: fuoco e acqua, quiete e tempesta, 
        contrari che si completano e annullano, senso del gusto senza inutili 
        orpelli e un ribollente impeto di fierezza tipicamente barbaricina. Dotata 
        di una capacità espressiva rapida e incisiva, alla spontaneità 
        aggiunge frammenti di ricordi, che ricompone in forme e accostamenti inediti 
        in un linguaggio che potremmo definire minimale.
 
  Dopo 
        aver maturato varie esperienze nel campo della scultura e dell’incisione, 
        si riappropria delle origini, cimentandosi per la prima volta nel 1993 
        nella ceramica artistica. Recuperare le radici significa, per lei, disvelare 
        i contorni di un passato sedimentato nella memoria, far riemergere quella 
        preziosa capacità di manipolare l’argilla che suo padre, 
        Simone Lai, rinomato ceramista, conosceva molto bene, mentre a Dorgali 
        aleggiava ancora il ricordo (nonostante la morte precoce) di uno zio materno, 
        Salvatore Fancello, scultore, disegnatore satirico e pittore che M. Calvesi 
        definì «uno dei più promettenti tra i giovani ceramisti 
        italiani». È attraverso loro che Caterina Lai acquisisce 
        una consuetudine artistica con la ceramica, scopre la fascinazione dell’argilla, 
        saggiandone la duttilità e cogliendone immediatamente le incredibili 
        potenzialità espressive. Le suggestioni acquisite durante l’adolescenza e approfondite durante 
        gli studi liceali a Cagliari, si traducono ancora oggi in una ricerca 
        tesa al gusto per la materia “povera” della quale esalta l’essenzialità, 
        come il bucchero, l’argilla bianca e il raku. L’impiego di 
        questi materiali è particolarmente importante nell’esito 
        delle prove artistiche dove la funzionalità erede di un’antica 
        cultura artigiana si allea perfettamente con una ricerca di tipo estetico-espressiva.
 Le lastre in bucchero, materiale molto noto agli Etruschi, cotte senza 
        ossigeno in forni speciali, assumono una particolare tonalità grigio-nera 
        con sfumature argentate. È soprattutto sulle lastre scure che i 
        segni creano un gioco vertiginoso di lampi luminosi e il fondo si trasforma 
        in luminosa atmosfera di spazio-luce.
 È l’istinto, o forse l’impeto dell’inconscio, 
        a muovere le superfici, i graffi, le linee, che si distendono o si corrugano, 
        evocano paesaggi universali, modellati dalla secolare erosione del vento 
        e del mare. Trittici, lastre e, più raramente, vasi e piatti, accolgono 
        spontanei increspamenti della materia: sagome antropomorfe, volti, fondali 
        marini, bestiari fiabeschi, orografie immaginarie, paesaggi visti a volo 
        d’uccello. È forse, in questo gioco istintivo di tratti e 
        di linee, la tendenza a guardare il mondo con gli occhi stupiti di un 
        bambino, o forse l’emozione, a trascinare la mano di Caterina Lai 
        sul sentiero già tracciato da Salvatore Fancello: ad accomunarli 
        è lo stesso tentativo di ri-connotare il patrimonio simbolico-formale 
        sardo attraverso un confronto con le istanze della “modernità”. 
        La narrazione, aperta e liberamente articolata nello spazio, è 
        desunta da frammenti di realtà vissuta e poggia su scorci di memoria. 
        Dalle trame dei ricordi giovanili, da un tempo senza tempo, emergono infatti 
        parole desuete “in limba” che incidono la materia plastica 
        e sono funzionali a esigenze comunicative: filastrocche e antichi proverbi, 
        ricchi di saggezza popolare, si librano istintivamente nella superficie 
        palpitante di vita, entrano nel gioco compositivo per ri-definirsi e acquisire 
        nuovi significati. Anche i ciottoli (licuccos) ricordano le forme “familiari” 
        dei dolci fatti in casa, i bottoni usati dalle ricamatrici dorgalesi, 
        i fusi delle tessitrici, ma anche fossili e pietre raccolte in riva al 
        mare. Riappropriarsi della loro forma, del loro potere tattile-evocativo 
        non è solo un gioco nostalgico, ma il tentativo di raggiungere 
        l’universale attraverso il particolare della propria cultura. Nell’ultima 
        produzione Caterina Lai, più che agli effetti plastici mira a un 
        tratto più lieve, a delicate colorazioni evocative come ai grigi 
        intermedi, ottenuti attraverso gli ingobbi. La modellazione è più 
        piatta, il segno diventa più morbido, meno scavato, in alcune formelle 
        come Gai e goi, totem piatto dove i segni e le tenui increspazioni assumono 
        un’espressione delicata, patinata da una tensione lieve e rattenuta; 
        così in Trittico in terra bianca i grafemi, da indicatori tridimensionali, 
        diventano dettaglio puramente descrittivo e luminoso. Un linguaggio nuovo, 
        che mette a confronto l’eredità culturale della tradizione 
        con acquisizioni internazionali e che conserva, tuttavia, la stessa chiara 
        spontaneità dei lavori precedenti.
 Caterina Lai, nata a Dorgali, vive e lavora a Cagliari. |