dell'OPERA
 
Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°3
Sommario

Il retablo di Contini
Vittorio Fagone

I PERCORSI INFINITI
Aldo Contini, Teatrino, 1971, acrilico su tre tele accavallate, 30 x 40 x 5,5 cm

Incontro con
Aldo
Contini
di Antonello Fresu
A.F.: Hai detto, una volta, in un’intervista, che per te «l’arte nasce dall’arte». Hai detto anche, però, di essere un pittore realista, intendendo, con questo, un tuo costante impegno ad aderire alla realtà, sia interna che esterna.
A.C.: Quando dico che «l’arte nasce dall’arte», intendo dire che l’arte non nasce, almeno per me, da un sentimento che è figlio di un rapporto con il reale, un evento della realtà. Faccio un esempio: se vedi una donna con due bambini in braccio, stanca e affaticata, questa è senz’altro un’immagine che ti commuove, però, il quadro che tu fai è solo apparentemente figlio di quest’emozione. Nasce, invece, dal rapporto dialettico con i quadri che altri hanno fatto prima di te: si tratta, cioè, di un rapporto linguistico. Un’opera che contenesse la semplice rappresentazione di quell’immagine sarebbe, pertanto, una mutilazione dell’arte, che invece è polisemica per definizione. Infatti, non solo l’arte si offre a tanti significati diversi, ma questi cambiano, si modificano, si aggregano, man mano che passano gli anni, e la “tua” comunicazione viene a contatto con le possibili letture di altre persone che verranno, magari, cinquant’anni dopo di te, e che daranno un’interpretazione assolutamente indipendente dall’evento che ha attivato, oggi, la realizzazione della tua opera.
Questo non significa che l’artista non debba rappresentare un qualcosa, fare un quadro con degli oggetti riconoscibili, perché, in fondo, è anche da questo che nasce la possibilità di lettura da parte del fruitore, il tasso della trasmissione poetica. L’importante è che si capisca che la comunicazione didascalica, o ideologica, o morale, è solo un fatto accidentale, è solo un incidente.

A.F.: Chi è, allora, il destinatario dell’opera d’arte?
A.C.: Intanto, bisognerebbe sapere cos’è un’opera d’arte! Comunque, il destinatario è colui che la legge e, finché non l’ha letta, l’opera d’arte non c’è. Io non dico mai niente di definitivo, ma credo che questo si possa dire.

Aldo Contini, Vetrata, 1989, smalti ad acqua su tela, 102 x 82 cmA.F.: Ma non credi che l’opera d’arte possa esistere anche senza un fruitore, esistere cioè come realtà che appartiene, prima di tutto, a te che l’hai creata?
A.C.: Non credo. L’arte è una realtà che vive nel momento in cui l’oggetto che io creo - e che non conosco così bene come lo conosceranno gli altri - si incontra con l’interpretazione del fruitore, del lettore, di colui che lo riceve. Credo, infatti, come la semiotica insegna, che ci sia un emittente, un ricevente e un mezzo, in questo caso l’opera. Non esiste comunicazione che prescinda da questi tre elementi. L’artista può essere contento di ciò che ha fatto, però, finché non interviene qualcun altro che legge l’opera, la inquadra, la interpreta, questa non esiste. C’è da dire, però, che in realtà il primo lettore dell’opera è l’artista stesso ma, proprio per questo, la sua lettura è meno attendibile rispetto a quella degli altri, certamente più distaccati.

A.F.: Possiamo dire, allora, che nonostante l’opera d’arte rappresenti l’esito finale di un processo creativo, non possa essere mai considerata come un punto di arrivo?
A.C.: No, un punto d’arrivo non c’è mai. Intanto, non credo che un’opera possa mai essere esaustiva, ed è per questo che l’artista, spesso, vive dei residui inespressi dell’ultimo lavoro che ha fatto. Non solo, per quanto mi riguarda, sento la necessità di continuare a controllare l’opera anche quando questa è già finita: è ciò che chiamo, ironicamente, “post-getto”. Controllare, cioè, che tutto “vada bene”, che non ci sia qualcosa in più o qualcosa meno, evitare suggestioni troppo dirette, citazioni da altri o anche da te stesso. Ecco, non solo l’opera non è mai finita, ma non finisce mai il controllo che faccio sulla singola opera.

Aldo Contini, Studio per La Creazione, 2000, foglia oro su legno, 46 x 2 cmA.F.: Il “post-getto” è quindi qualcosa che ti può portare anche a reintervenire concretamente sull’opera già finita?
A.C.: Certo, è possibile. Recentemente, per esempio, sono intervenuto su un lavoro già esposto, sostituendo l’oro “falso” della sezione aurea con una foglia d’oro vero. E ancora, a distanza di anni, ho aggiunto una cornice di legno grezzo, naturale, a gran parte dei retabli già esposti per Magnificat.

A.F.: Più che un controllo sull’opera, però, mi sembra che il tuo sia una sorta di dialogo continuo con essa, una comunicazione aperta che non si esaurisce mai, ma anzi si carica continuamente di nuovi significati, sia perché tu intervieni più volte sullo stesso lavoro, sia perché i fruitori incontrano, ogni volta, un’opera diversa. Non solo, nel ciclo di Magnificat, questa comunicazione si dilata nel tempo, grazie al lento processo di ossidazione dell’oro “falso” che, trasformandosi nel tempo, modifica la struttura stessa dell’opera. In quest’ottica, qual è, allora, il tuo rapporto con i possibili fruitori del tuo lavoro?
A.C.: Una cosa che fa l’artista, e che a me piace molto, è quella di giocare con il lettore, nel tentativo di spiazzarlo. L’opera d’arte deve essere letta, interpretata e mi piace l’idea di mettere l’interlocutore nelle condizioni “peggiori” per leggere le cose, in modo tale - ed è un patto che io faccio con lui - che debba sforzarsi per arrivarci, per entrare in contatto profondo con l’opera. E in più, quando è convinto che io ho fatto questo o quello, per un certo motivo, come ad esempio nell’omaggio a Malevic, allora lo “spiazzo” di nuovo, scrivendo le parole al rovescio, oppure rimpicciolite o, ancora, tagliate a metà.

A.F.: Sono convinto, certo, che il livello simbolico non debba essere immediatamente leggibile, anche perché, in tal caso, l’opera diventerebbe didascalica. Non trovi però contraddittorio dareAldo Contini, Piccola tavola , 1983, acrilici su stucco su cartone, 12 x 7 cm tanta importanza al lettore e, allo stesso tempo, rendere così difficile la lettura del lavoro?
A.C.: Il lettore deve rendersi conto che ci sono tantissime possibilità. Voglio che si colga il livello polisemico dell’opera. Da questo punto di vista, nonostante sia un grande ammiratore di Sanguineti, tendo più al simbolo che all’allegoria. Nell’allegoria, infatti, c’è un’affermazione che viene comunicata in maniera assertiva. Il simbolo, invece, è più sintetico, più sfumato, più ambiguo. È per questo che la comunicazione estetica si arricchisce, continuamente, di nuovi significati, perdendone alcuni e ritrovandone degli altri. Ecco perché sono contrario alla comunicazione ideologica o morale attraverso l’opera d’arte. Senza dubbio, questa è presente: l’eccesso, però, provoca una “castrazione” dell’opera. È come se le togliessi la possibilità di avere tanti sensi diversi mentre ne acquista uno solo, definitivo, immutabile. In fondo, una conquista di questa condizione generale che viene chiamata postmoderno è stata la consapevolezza del fatto che non ci sono delle cose definitivamente giuste, e siccome non ci sono cose definitivamente giuste è difficile dire che ciò che è giusto oggi lo sarà domani. Se oggi affermo qualcosa, non sono mai sicuro che ciò valga anche domani.

A.F.: Ma il tuo mettere in discussione l’ideologia nasce dal fatto di averla sentita così pressante, in un certo periodo storico, oppure è qualcosa che senti ancora oggi? Quando parli di ideologia, insomma, ti riferisci specificamente all’ideologia di sinistra o a qualunque forma di totalitarismo ideologico?
A.C.: Mi riferisco a qualunque forma di rigidità ideologica, però, essendo stato “gauchista”, me ne assumo comunque la responsabilità. Mi spiego, non è che io sia contro l’ideologia, sono contro l’ideologia totalizzante, per la quale tutto doveva essere fatto secondo le direttive imposte. L’ideologia è qualcosa che tu puoi avere dentro, che ti trasforma, ti aiuta a vivere, a giudicare le cose. Credo sia necessario, però, avere la capacità di metterla continuamente in discussione, di acquisire i nuovi elementi, i nuovi contenuti che derivano dalla realtà esterna, in modo tale da poterla cambiare, modificare, adeguandola ai nuovi sviluppi della realtà.

A.F.: Il “Gruppo della rosa” nasceva, quindi, come contrapposizione al potere delle ideologie, anche in ambito artistico?
A.C.: Il gruppo nasceva mettendo in mora il modernismo, le avanguardie. Si ironizzava su coloro che, intorno agli anni ’70, volevano imporre il primato di alcuni canoni, estetici o ideologici, su tutti gli altri. Tanto è vero che avevo proposto il tema della “rosa” - uno dei più consumati, banali e pieno di simboli usurati - per dimostrare che anche su un tema così scontato si potevano fare delle belle cose, senza necessariamente inserirci in una delle tante avanguardie di allora.

A.F.: L’intento ironico e trasgressivo, però, ha sempre fatto parte del tuo lavoro?
A.C.: Non so se si possa parlare di ironia, certo c’è un po’ di spirito trasgressivo, dettato sicuramente da un senso di ribellione e contestazione verso tutte le imposizioni. Nonostante la mia ironia, però, io sono terribilmente serio, le cose che faccio sono terribilmente serie, forse anche noiose. Anche la mia affermazione che «in arte si può fare tutto e il contrario di tutto, l’importante è non crederci», in apparenza così ironica e leggera, è stata, in realtà, una delle cose più “serie” che io abbia mai detto, un’affermazione dettata dalla necessità di non prendersi troppo sul serio, di non dare mai niente per scontato, di essere capaci di ironizzare sul mondo e su se stessi, e quindi anche sull’arte.

A.F.: Se non sbaglio la mostra che hai fatto nel ’71 giocava proprio sulla trasgressione. Mi pare anche che in quell’occasione avessi utilizzato due persone che avevano il tuo stesso cognome. Mi racconti com’è andata?
Aldo Contini, Tautologia, 1977, olio su tela, 100 x 120 cmA.C.: Dovevo fare una mostra, e pochi giorni prima dell’inaugurazione non avevo ancora preparato niente, c’erano ancora le tele bianche. Poi tutto è successo dalla mattina alla sera - ti dico questo per dire che, a volte, ci sono degli elementi strani che entrano a far parte della comunicazione. Avevo trovato due persone che avevano il mio stesso cognome e le avevo portate nel mio studio. Lì dicevo loro: «venti centimetri di rosso fin qui», «un metro e mezzo di blu fin qui». Questo è stato un lavoro che ho sentito molto, non solo perché era mio, ma era molto più mio perché era fatto non da una ma da ben… tre persone che si chiamavano Contini. Ecco, mi chiedevi prima della costrizione delle avanguardie. Questo intervento, un’operazione di avanguardia, seppure in ritardo, non avrebbe funzionato se non ci fosse stato l’elemento ironico. Non sarebbe scattata l’antifrasi, la possibilità, cioè, della negazione.

A.F.: L’intento dissacratorio è presente, comunque, anche nelle Tautologie. Anzi, nelle Tautologie, metti in discussione sia quelli che operavano sul concettuale, ma anche chi utilizzava ancora la pittura in maniera tradizionale.
A.C.: Sì, in realtà era un’operazione concettuale, fatta, però, con i mezzi tradizionale della pittura, anche se, a dire il vero, avevo trasgredito una delle regole fondamentali della pittura classica, utilizzando il bianco di titanio anziché il contrasto di colore per la creazione delle luci. Insomma, anche qui una sorta di gioco.

A.F.: Ho l’impressione, però, che l’atteggiamento ironico che c’è sempre stato nel tuo lavoro, sia venuto un po’ meno nel ciclo di Magnificat, come se in questo ciclo fosse presente una tua maggiore partecipazione emotiva e personale, qualcosa che, insomma, ti riguarda più profondamente.
A.C.: Questa è una cosa che occorrerebbe chiedere alla carta d’identità. Più vai avanti negli anni più c’è sgomento rispetto al mistero della vita: è allora che cerchi, sia pure a livello simbolico, materiali più eterni, più resistenti, come l’oro. Non dimenticare che Magnificat è venuto quando già ero molto più vecchio e dovevo, in più, fare i conti con la Sala delle Maestà degli Uffizi che visitavo quasi giornalmente e, per contraltare, con i Retabli delle nostre chiese. Mi ha sempre commosso, nei Retabli, il tentativo di fare delle cose importanti senza riuscirci. Li amo molto anche per questo. Proprio le opere degli antichi maestri, comunque, mi hanno trasmesso la passione per l’oro e così ho dovuto imparare la tecnica della doratura che, fino ad allora, non conoscevo. Però, all’esibizione riflettente dell’oro lucido ho preferito, da subito, la presenza più contenuta e discreta dell’oro opaco. Credo, anzi, che anche l’aggiunta dei listelli di legno grezzo alle tavole di Magnificat possa avere, in parte, lo stesso significato, contenere l’esuberanza dell’oro.

A.F.: Dopo la recente mostra all’ExMà stai preparando qualche nuovo progetto?
A.C.: Non vedo l’ora di ricominciare a lavorare, voglio continuare ancora a fare queste cose, e in questo momento sto elaborando materiali e spunti per un nuovo progetto che non ha ancora preso completamente forma, insomma c’è ancora un po’ di caos.

A. F.: Ma caos per te significa anche casualità? La creazione inizia dal caos?
A.C.: Credo di essere cambiato nel tempo: inizia dal caos, certamente, ma parlando di caos non parlo di casualità perché, come sai, ho una certa diffidenza nei confronti dell’irrazionale. Generalmente cerco di essere razionale, anche se lo sono soltanto in parte, all’inizio mi butto. Tant’è vero che le cose che ho fatto dal ’75 all’’80 con il titolo Gli anni della ricerca disperata e folle, sono venute fuori così, senza pormi nessun limite : Ma non vuol dire, per questo che siano irrazionali. Insomma, nella casualità del caos si fa un oggetto servendosi di qualcosa che si trova, nel mio lavoro, invece, gli elementi del “caos” sono io stesso a crearli. Si tratta di fare, cioè, qualcosa che prima non c’era, utilizzando cose che prima non c’erano, e che puoi scegliere di usare oppure buttar via.
Chissà, queste cose, dove andranno a finire...

Aldo Contini è nato nel 1924 a Sassari, città dove vive e lavora. Autodidatta in campo figurativo (alle spalle studi interrotti di Ingegneria), è guidato da un’ipotesi di arte come impegno sociale. Nel 1965 aderisce al Gruppo A, facente capo all’omonima galleria, e nel 1976 fonda il Gruppo della Rosa.

Aldo Contini, Aetatis suae, 1995, tecnica mista e foglia oro su legno, 41 x 41 x 6 cm
di Vittorio Fagone
dal Catalogo di Magnificat
IL RETABLO
    DI CONTINI
L’attenzione di Aldo Contini verso i retablo non è casuale. Egli vi impegna una “memoria continua” tipica degli artisti colti e sensibili nel confronti dell’habitat visuale vissuto quotidianamente, attiva nel cogliere continuità e vitalità di opere e codici visivi significativamente inseriti, quando non determinati, dall’ambiente culturale.
La lettura dei retablo che Aldo Contini ora esplicita, coniuga l’evidenza di queste opere straordinarie e una sorta di personale attiva memoria del fare arte. Singoli elementi di una sperimentazione assidua sviluppata per decenni e volta a saggiare dell’operare artistico fattualità e concettualizzazione, rigore compositivo e invenzione, traslucentezza e vivo cromatismo, geometria e ideale topologia dello spazio, vengono recuperati e confrontati dentro una stessa complessa ma nitida misura.
Nel lavoro di Contini la fisica, costituzione del campo iconico esalta la processualità manuale che conferisce all’opera una diretta dimensione di manufatto riconducibile a un’esplicitata ‘cultura materiale’. In questa operazione ogni singolo momento formativo è però reso, evidente come per una dichiarata enunciazione. Il momento di determinazione fattuale viene così a coincidere con una sorta di lucida formulazione concettuale. Tra le due polarità operative non si viene a determinare distanza quanto piuttosto una sinergica confluenza. Il risultato, evidente nei recenti retablo, è la compenetrazione tra costruita articolazione del manufatto e la nitida efficacia di un segnale.
La delimitazione geometrica del campo di rappresentazione viene esplorata nel recente lavoro di Contini con particolare insistenza su due versanti: la superficie dipinta, delimitata dalla cornice, e la cornice stessa, sempre rilevata e ben definita. Si ricordino, a proposito della cornice, le osservazioni di Georg Simmel: il valore di totalità che ogni opera d’arte visuale di per sé esprime, è ribadito dalla chiara delimitazione della cornice la quale, mentre realizza una “prospettiva interna” del campo di rappresentazione, stabilisce un perimetro netto di ogni articolazione compositiva. È singolare il dato, reso evidente dal nuovo lavoro di Contini, dell’interruzione dell’ordine geometrico primario, tipica della cornice dei retablo, che stabilisce un secondo ordine prospettico, allargato.
L’orientamento del campo di visione di alcune opere, fuori dalla canonica configurazione rettangolare e a favore di una superficie a croce di Sant’Andrea come già sperimentato dal suprematista Malevic, esalta la capacità di segnare lo spazio e di sollecitarne, nella stessa misura, una generativa espansione. In questo modo, ogni geometria per quanto rigorosamente determinata e stabilita, viene attivata da un più risoluto momento di identificazione e isolamento percettivi.
Il nodo centrale della nuova ricerca di Aldo Contini è costituito, a mio giudizio, dall’insistita esplorazione della dimensione del tempo indagato come tramite comunicativo oltre che come esplicitazione strutturale.
Il tempo della pittura, di ogni pittura, è convenzionalmente riconducibile, secondo Jean François Lyotard, a parametri differenziati. C’è un tempo di produzione, necessario al pittore per dipingere un quadro, e un tempo di fruizione, indispensabile per la percezione e la comprensione di chi guarda l’opera; c’è un tempo di riferimento, che analizza gli svolgimenti narrativi e le compressioni del campo iconografico, e c’è infine un tempo di circolazione che distanzia il tempo storico della creazione dell’opera e il tempo attuale della lettura di questa.
La cultura occidentale ha lungamente coltivato l’ambizione “ingenua” di isolare questi momenti come diversi luoghi del tempo. Commentando l’opera di Barnett Newman, Lyotard ha potuto distinguere nell’arte di questo secolo dominata dall’esplicitazione del tempo, due polarità radicali: una, ben espressa da Marcel Duchamp, che assume il tempo come articolata prospettiva operativa, la seconda, significativamente rappresentata dal maestro dell’espressionismo astratto americano, che fa coincidere icona, costruzione del quadro e percezione di un tempo assoluto e infrazionabile. Il lavoro di Contini si pone, con originalità, in questa seconda fruttuosa direzione formativa e poetica.
Il tempo di narrazione, tipico dei retablo storici, nel lavoro di Contini viene a coincidere con un tempo di apparizione clamoroso. L’isolamento di un dettaglio strutturale, la messa in enfasi di questo attraverso una dilatazione della geometria costitutiva di un solo elemento architettonico ne rinforza una complessiva ideale espansione.
Il gioco delle dorature non è solo una rivisitazione di un tramite storico tra i più caratteristici dell’intatta suggestione dei retablo sardi ma ancora ambiguo attraversamento di un tempo metamorfico. L’oro ‘vero’ non conosce invecchiamento nel suo splendore, l’oro ‘falso’ è presto caduco. La “regola preziosa” è però contraddetta dall’argento, l’argento ‘vero’ si ossida e presto si ricopre di una patina brunita, l’argento ‘falso’ dura, lucente nel tempo. Doratura e argentatura nel campo dei retablo di Contini alternano segnati ritmati e contrapposti, si scambiano ‘figure’ mobili e illusorie oltre l’apparente splendore.
La ‘materia viva’ della tavola non viene annullata dall’oro e dall’argento. Una specchiante evidenza ne mette in risalto la corposità, il verso della costituzione, la mutazione non solo entro il colore luce ma nel tempo inseparabile. L’articolazione di segni brevi, dentro le grandi e chiuse campiture dorate, bilancia ritmi primari e sonorità-luce continue in un movimento di progressive espansioni e di calibrate riduzioni. Questa “geometria interna” si accorda alle positive dissonanze delle sagomature complessive di superfici e cornici in un ordine non statico e visivamente produttivo. Per questo la materialità delle opere recenti di Contini non è mai pesante o greve, obbligata com’è al gioco delle apparenze, ai rimbalzi tra segnali mobili e complessità attive sul piano percettivo. Contini conduce con maestria un’operazione creativa in cui la pittura tra materia e visione si rivela ancora produttiva e coinvolgente illusione.
Mark Rothko amava ripetere che l’itinerario di un artista autentico può definirsi una “ascesa” verso la chiarezza. A me pare che la lucida evidenza dell’ultimo lavoro di Contini testimoni oltre che della continuità di un percorso ogni volta fruttuosamente impegnato in nuove prove, di una raggiunta e persuasiva chiarezza.

Vittore Fagone è storico dell’arte contemporanea e direttore della Galleria d’Arte Moderna dell’Accademia Carrara di Bergamo. Storico e critico del design, insegna alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano dal 1982. È visiting professor nel dipartimento d’arte dell’Università di New York.

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