Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°3
Sommario

I L  C I N E M A
M
U
T
I
L
A
T
O

«Il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza», scriveva Jean Paul Sartre nell’opera che ha segnato il suo contributo più forte alla storia della filosofia, L’essere e il nulla. Il cinema, che dà forma all’essenza stessa del movimento, coglie meglio di ogni altra arte il senso di questa definizione. L’essere “oggetto” e l’essere “psichico” traducono l’idea del corpo nel puro flusso dell’immaginazione. Inteso in questa direzione, ogni discorso sul corpo è anche discorso sull’osceno e discorso ob-sceno. Il corpo, così come lo sentiamo nella nostra sfera percettiva, sfugge tangenzialmente a ogni presuntuosa razionalizzazione.
Orizzonti dell’ibrido per il corpo o/sceno
di Antonello Zanda
Ogni discorso sul corpo è - nella realtà pensata - una sua intellettualizzazione. Per questo ogni volta che ne parliamo ci scopriamo ridondanti, perché esso trascende se stesso nel suo volgere (o svolgere) il tempo. Tutto il cinema parla di corpi, racconta d(e)i corpi… è una mostra di corpi. Ma sono altri dal nostro e dal nostro percepirci. Il pensiero acconsente a questa deriva obliqua (tangenziale) e si pone fuori della scena: guarda il corpo come guarda il cinema dal di fuori. Il miglior modo per coglierne la forza è di guardarlo con gli occhi del cinema. Speculare.
Si possono prendere ad esempio due film che si presentano come palp(it)azioni metafisiche intorno al corpo. Romance di Catherine Breillat e Un chant d’amour di Jean Genet. Due direzioni così lontane e divergenti da riunirsi in un punto qualunque della mente. Il primo incide un taglio sulla curvatura della produzione pornografica, crea una falla. Libera Rocco Siffredi dal morbo dell’esibizione sessuale, della frizione meccanica. Come mettere in folle un motore a scoppio, farlo girare liberamente senza produrre movimento. Scatenato dal suo essere liquida materia senza forma, nel film di Breillat il corpo di Siffredi è ottuso, declinato sulla superficie intellettuale della regista. Come dire che il corpo filmico si sottrae al mito del corpo. Nel film di Jean Genet, Un Chant d’amour, c’è invece il corpo segregato che si sottrae alle catene materiali del corpo: si libera non dal corpo che si fa mito, ma dal mito che si fa corpo. E diventa così immagine dentro l’immagine, in questo modo sfumando. Il bianco e nero iperreale di Genet si contrappone al colore sbiadito (fino all’incolore) della pellicola di Breillat.
Una sequenza di Un chant d’amour ci mostra i due detenuti che si comunicano il fumo di una sigaretta con una cannuccia, attraverso un piccolissimo foro sul muro che li divide. Il fumo è un dato segnico di grande rilievo. Allude a qualcosa (dell’anima) che brucia e che trapela e introduce il tema della metamorfosi, del passaggio di stato, del fuoco e della passione. Attraverso quella cannuccia passa un corpo in comunicazione, dissolto in immagini, in forme plastiche assorbite dall’aria. Diventa immagine. E il secondino che guarda di nascosto la solitudine dei detenuti osserva immagini, vede proiezioni irradiate direttamente dai suoi occhi intrisi di desiderio. Il mondo è fatto di secondini che osservano dal buco della serratura i desideri capovolti. I due carcerati non si vedono, ma si sentono e toccano intimamente. Sognano lo stesso sogno, una finestra mentale disposta alla fuga di entrambi, l’evasione realizzata nel pensiero dal desiderio puro. Le immagini vengono mangiate perché il fumo passa di bocca in bocca. La distanza sembra essere la misura dell’erotismo, laddove il porno ci ha abituato alla meccanica del dettaglio, al montaggio sincopato dei genitali. La retorica del sesso taglia i preliminari e fa scivolare subito l’attesa nella sequenza pompino-coito-sodomizzazione. Il corpo hard non è corpo truccato. Niente a che vedere con il cinema erotico, che sosta sulla soglia della forma: “culi e tette” si scambiano vertiginosi il ruolo di pieno schermo, pieno dell’occhio, buco nero dello sguardo. Mantiene una certa distanza e non cura il dettaglio perché si perde nella musica delle forme totali, indugia sui campi lunghi. I particolari che coglie sono le mani, i piedi, la bocca, gli occhi nella loro espressione che dice di ciò che avviene altrove, in un punto ben definito dello spazio e del nostro corpo. Il sesso è ob-sceno, fuori dalla portata dell’occhio, ai bordi dello schermo. Il cinema porno invece non usa movimenti di macchina: il movimento dominante è quello dei corpi che si consumano nell’attrito epidermico, nella frizione sensoriale dei desideri e degli istinti. Il cinema porno (si) affida tutto al montaggio. Chi guarda non è indotto allo scambio con l’immagine, ma ne viene tenuto separato, ai margini di un accadimento cui può partecipare solo chiudendo gli occhi della mente. Perché la masturbazione ha bisogno di un isolamento concettuale del corpo per potersi realizzare. Ma si tratta di una ricostruzione immaginifica, non c’è identificazione, non c’è partecipazione, immedesimazione, solidarietà, coinvolgimento, implicazione. I movimenti delle mdp sono perversi perché inducono a un godimento estetico che minaccia l’autodeterminazione dell’ego. C’è nel cinema porno la proiezione virtuale, del tutto immediata, della inconsistenza del corpo, che nasce proprio dalla sua riduzione a pura meccanica corporale. Perché in definitiva più ci si avvicina all’oggetto, più il movimento si deoggettivizza. Il corpo si allontana man mano che ci si avvicina alla sua sostanza fisica, alla sua funzione spazio-temporale. Affinché ci sia scambio è necessario che il soggetto riporti il piano dell’immaginazione alla sua dimensione relazionale, democratizzando il rapporto: riconoscendo soggettività all’immagine e immaginificando il soggetto.
Nicolas SinclairQuesto rapporto sposta il tema del corpo e del suo valore sul terreno della comunicazione. Qui il cinema sviluppa e sta ancora sviluppando linee e orizzonti ancora inesplorati. La tensione metafisica del cinema che sempre di più rinuncia al corpo vero per ricrearlo elettronicamente è ineludibile. Oggi lo spettatore scambia virtualmente il corpo elettronico con il corpo vero (vero?) e in questo scambio perde se stesso, si ammala e orbita nella costellazione anestetica dei suoi sensi. Il corpo aveva già riconosciuto il dolore delle mut(il)azioni cui era esposto: il cinema cronenberghiano lo aveva riconquistato alla possibilità della sua disintegrazione. Davanti a questi film la pulsione del dolore ha fatto sentire la sua presenza intramontabile, il suo mezzogiorno eterno indifferente alla traiettoria inclinata dell’occidente. Al metallo si sostituisce l’imponderabile dell’elettrone e il dolore perde la capacità di offrire al corpo un terreno fertile per il suo bisogno di identità. Sul fronte del porno la materia fisica è invece spossata, svuotata, sbranata dagli occhi dentati dell’onanista. Una spersonalizzazione non riuscita nemmeno dagli snuff-movie, film erotici e violenti che mostrano (i mostri) della morte (vera?) della vittima. Percorsi forse inconcludenti, se qualcosa ancora resta da concludere. I corpi oggi hanno preso la strada dell’ibridazione. Sembrano volersi liberare della coscienza e della volontà dei soggetti: tatuaggi, scarificazione, body piercing, body art popolano sempre di più il video quotidiano della nostra storia. Il corpo muove e forse può riuscire a trovare una nuova visibilità nel cinema, in quel campo in cui l’elettronica si sostituisce alla volontà e consente al corpo di rivivere. «Ciascun rivederà la trista tomba / ripiglierà sua carne e sua figura», diceva Virgilio nella commedia dantesca prefigurando il giorno del giudizio. Riuscire a capire dove va il corpo quando ne perdiamo il controllo cinematografico è un segno importante. Un orizzonte ermeneutico degno di essere incorporato.

 

Ultimo numero ° News ° Archivio ° Chi siamo ° Contatti ° Sponsor ° Link

Catherine Breillat, 36 fillette , still da video Cartellone del film Rocco and true stories