Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°3
Sommario

I luoghi collettivi di
Igino Panzino
di Mariolina Cosseddu
La scommessa è quella di mantenere saldi i presupposti della propria poetica e, contemporaneamente, aggiornarne i termini in una nuova versione a destinazione pubblica e ambientale. I nuovi progetti di intervento artistico sul territorio, sorta di grandi sculture simbolo del luogo e della gente, prendono forma, nello studio di Igino Panzino, in disegni preparatori e nei modelli in scala ridotta che offrono già di per sé la visione di oggetti autosufficienti e perfettamente conclusi nella propria dimensione estetica. Di fronte a queste opere, che sembrano condensare anni di ricerca e di riflessione, si avverte prepotente ed ineluttabile l’assunto storico di Igino Panzino, quello dell’opera intesa come progetto educativo che passa, questa volta, attraverso il rapporto diretto con l’ambiente naturale e sociale dell'isola.
In realtà è forte anche la sensazione che Panzino ami muoversi in controtendenza rispetto ai destini dell’arte contemporanea o, comunque, a collocarsi sempre in un’area di autonomia creativa seppure sottoposta, ora, alle esigenze della committenza pubblica. Mi pare, infatti, che il suo intento sia libero da generi storicizzati e volto, invece, ad interpretare un luogo pubblico attraverso l’inserimento dell’opera in un territorio che gli appartiene e di cui è segnalazione estetica. Igino Panzino è ancora convinto, insomma, che in tempi di disgregazione del sociale, l’opera possa essere luogo di identità e riconoscimento, segno tangibile di una cultura che dichiara se stessa e la propria ostinata vitalità.
A Igino Panzino ho rivolto alcune domande per osservare da vicino questi nuovi intenti comunicativi.

M.C.: Il lavoro che ti vede impegnato in questi ultimi mesi segna, almeno apparentemente, una svolta nella tua attività artistica. Siamo autorizzati a considerarla tale o, al contrario, ne è la logica evoluzione?
I.P.: Ho compiuto quest’anno cinquant’anni, età che, contrariamente a quanto dicono facili luoghi comuni che la propongono come solida stagione di maturità, è, invece, per me, critica, anche per via di una certa sensazione di disagio che provo per questo contemporaneo. Un’età dunque di bilanci e riflessioni che sposta il mio lavoro verso un impegno diretto nell’arte pubblica e verso un rapporto più stretto con l’architettura per cercare un contatto materiale con l’utenza. Più che di una vera svolta si può parlare di un mutamento che dà maggiore evidenza ad un aspetto già presente nella mia precedente attività.

Igino Panzino, Domestic flight, 2000, granito, acciaio, campanacci, h 260 x 200 cm M.C.: Vuoi descrivere le valenze che questo progetto comporta?
I.P.: L’arte pubblica, che non ha goduto di grandi fortune nel nostro paese, mi sembra che continui a subire un pregiudizio negativo che la relega ad arte effimera, realizzata fuori dai centri storici e sottoposta ad approvazione popolare. Non riesco ad immaginare come l’architettura possa assumere aspetti effimeri o come i problemi dei centri storici possano essere risolti senza ricorrere a questa forma d’arte contemporanea rappresentata appunto dall’architettura e, perché no, dai legami che può stringere con la pittura e la scultura. Per quanto riguarda il consenso dell’opinione pubblica, penso che sia sempre rischioso rimettere ad esiti referendari materie specialistiche come l’arte contemporanea. Perciò la valenza essenziale di questo mio lavoro sta nell’affermare la contemporaneità delle funzioni formali e sociali dell’arte pubblica.

M.C.: Dunque il tuo lavoro nasce in sintonia con quello di architetti, archeologi e antropologi e, da questo punto di vista, è decisamente innovativo nella tua abituale metodologia operativa, seppure con alcuni sporadici precedenti negli anni scorsi.
I.P.: La novità consiste, oltre che nell’uso di tecniche e materiali diversi, sculture in metallo e pietra, soprattutto nel passaggio dalla ricerca “pura” alla ricerca “applicata”, vale a dire da un indirizzo quasi esclusivamente poetico alla progettazione di oggetti estetici finalizzati come sono gli attuali lavori. Nella mia attività ho sempre rivolto una particolare attenzione al rapporto tra concetto ed espressione, cercando di limitare la svalutazione che la manualità comporta nel dare forma materiale all’idea. Questa attenzione diventa ancora più necessaria nel lavoro che sto eseguendo.

M.C.: Come vede, un artista come te, mai sostenuto da illusorie progettualità, semmai accompagnato da una razionalità nonIgino Panzino, Progetto per la piazza della Stazione Centrale di Milano, 1999 priva, talvolta, di scetticismo e divertita ironia, il lavoro svolto in trent’anni di attività e cosa è ancora, secondo te, proponibile nel presente?
I.P.: Credo che già nel mio lavoro di esordio (parlo delle “architetture” di cartoncini traforati e sovrapposti) fosse presente un’intuizione dei limiti della metodologia progettuale del “moderno”, tant’è che alcuni storici e critici d’arte come Giuliana Altea, Marco Magnani e Gianni Murtas hanno in seguito collocato la mia ricerca nell’ambito dell’astrazione decostruttiva, del simulacro del progetto, insomma in quelle tendenze post-moderne maturate all’interno del “moderno”.
Di proponibile nel presente mi rimane l’immagine, maturata con quelle esperienze, di un’arte libera da subordinazioni ideologiche e da funzioni illustrative: un’immagine che vorrebbe questo progetto di autonomia capace di resistere all’attuale clima di revisionismo storico, orientato, a mio avviso, a ricondurre l’arte a un primitivo stato di accessorio, a disposizione dello spettacolo, della sua virtualità, delle sue leggi sull’audience. Per questi motivi il legame che sto costruendo con l’architettura diventa una delle poche strade percorribili per sottrarre il mio lavoro a questo processo involutivo e per contenere il senso di disagio che sento per l’attualità.

M.C.: Un lavoro di questo tipo comporta un senso di responsabilità maggiore rispetto a quello destinato al piacere privato dell’utente: come vivi e come senti il nuovo compito che ti sei prefisso? E c’è ancora posto, oggi, per un’arte di impegno, per un’arte che possa essere didattica e poetica al tempo stesso come lo è sempre stata la tua?
I.P.: Personalmente ho sempre inteso l’impegno, anche per via del rispetto dovuto all’intelligenza dei destinatari, come svolgimento completo del proprio compito che per l’artista rimane quello di esploratore del linguaggio visivo. Penso infatti che l’arte, per sua natura, concorra certamente alla crescita culturale degli individui, mentre non essendo strumento di diffusione di massa, più difficilmente possa partecipare, in modo diretto, alla crescita della coscienza civile generale. Altri sono gli strumenti dotati di questa capacità. Per tornare ai miei rapporti con l’architettura, credo che questa, a conti fatti, resti la più sociale delle arti, l’unica che materialmente determina le condizioni di vita degli utenti, e questa relazione mi permetta perciò di avvicinarmi al sociale senza snaturare il mio modo di intendere l’impegno.

M.C.: Nel tuo percorso è innegabile una forte coerenza, un interrotto processo creativo che nasce da un sentimento etico del  Igino Panzino, Progetto per scultura, 1999fare e che non ti ha mai abbandonato in tutti questi anni: è possibile mantenere integro questo sentimento senza scendere a compromessi con la committenza pubblica?
I.P.: Misurarsi con la committenza pubblica è un modo particolarmente impegnativo di controllare il proprio sentimento etico del fare. Riuscire a non cedere in qualità formale ciò che è dovuto alle necessità dettate dalla committenza richiede capacità professionale più ampie rispetto al lavoro di ricerca pura, richiede anzitutto la disponibilità al confronto interno al gruppo di professionisti con i quali si collabora. Queste operazioni danno necessariamente luogo ad un compromesso, ma forse lo stesso fare arte altro non è se non scendere ad un compromesso tra le proprie capacità di percezione mentale e le proprie capacità di espressione manuale. Ripeto, la realizzazione tende inesorabilmente a svalutare l’idea.

M.C.: Al di là della coerenza che, abbiamo detto, connota la tua produzione, è altrettanto innegabile un diffuso eclettismo rintracciabile nel tempo e che ti ha permesso di passare, con la stessa eleganza formale, mantenendo intatte le radici della tua poetica, dalla pittura alla scultura all'evidente amore per l’architettura: siamo ora ad una possibile “sintesi delle arti”, che sia questo il momento giusto?
I.P.: La sintesi delle arti può essere l’ambizione di un grande artista che disponga di grandi mezzi; io sono stato definito un artigiano della ragione e devo dire che mi riconosco abbastanza in questa definizione. L’incontro con architetti sensibili all'arte, come Gigi Gavini e Sandro Roggio, mi ha permesso di allargare i confini delle emozioni che la mia attività per fortuna continua a darmi. Grazie a queste emozioni riesco ancora a sorvegliare la sensazione di essere, come tutti, una creatura futile costretto ad una partita senza senso e perciò a cercare di giocare bene le mie carte, vere o false che siano.

Igino Panzino è nato nel 1950 a Sassari, città dove vive e lavora. Ha compiuto gli studi presso l’istituto Statale d’Arte di Sassari, sotto la direzione di Mauro Manca. Nei primi anni Settanta aderisce al Gruppo della Rosa. Dagli anni ottanta si dedica alla pittura, con una particolare attenzione all’acquerello ed al disegno. Ha partecipato a diverse manifestazioni artistiche e tenuto numerose mostre personali, in spazi pubblici e privati, in Italia e all’estero.

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